Umile Vainieri - Lighting Designer
Quattro chiacchiere con uno dei più conosciuti lighting designer italiani in ambito teatrale e televisivo.
A volte basta assistere ad uno spettacolo per restarne affascinati e capire la propria inclinazione professionale. È quanto accaduto a Umile, oggi uno dei più conosciuti lighting designer in ambito teatrale e televisivo. Lo abbiamo ritrovato, dopo tanti anni dal nostro primo incontro, in occasione di uno spettacolo di Proietti al Brancaccio e ci siamo fatti raccontare il suo percorso professionale.
Quello del lighting designer è un lavoro piuttosto particolare: come hai cominciato la tua professione?
Tutto è cominciato nel periodo della scuola: ci portarono a teatro a vedere uno spettacolo, e rimasi così coinvolto ed emozionato dalla magia di quel palco che subito pensai che quello fosse il lavoro che avrei voluto fare da grande. Per fortuna lo è diventato davvero. Sono stato anche molto fortunato, perché ho avuto un insegnante molto appassionato di teatro con il quale ho iniziato a sperimentare e a vivere i primi momenti dietro un mixer luci, provando l’emozione di creare con le mani sulla console qualcosa di magico. Ho affiancato questa attività agli studi universitari, ma il percorso della vita mi ha portato più verso il teatro, allontanandomi dall’università. Finché un giorno, quasi per caso, si è fermato il treno giusto. Ero in teatro per altri lavori e quella sera doveva andare in scena uno spettacolo di Proietti: il caso volle che l’operatore luci dello spettacolo fosse a casa ammalato, così qualcuno mi chiese se me la sentissi di prendere il suo posto. Con molta incoscienza ma tanta passione accettai quella proposta, e da allora quello divenne il lavoro che svolgo tuttora.
La tua formazione è quindi prettamente teatrale?
Sì: sono passato dal teatro sperimentale al teatro classico, dal musical all’opera fino al cinema. Sono fortunato perché, abitando a Roma, le possibilità di lavoro erano diverse, ed ho potuto fare esperienza in campi diversi.
Quali sono i lavori che ti appassionano di più?
Ho lavorato per la TV, per la musica e per il cinema, ma quello che mi appassiona di più è il teatro. Il teatro è l’essenza del nostro lavoro: la luce nasce in teatro, poi è stata presa in prestito da altri spettacoli. In TV e al cinema non è fondamentale da dove parte e dove arriva la luce, l’unica cosa importante è il risultato dell’inquadratura. In teatro invece è estremamente importante tutto il percorso della luce, il punto di partenza e di arrivo, ed ovviamente la sua qualità. Lo spettatore del teatro vede la scena nella sua totalità, vede da dove parte e dove finisce il raggio luminoso e la luce è il collante di tutta la scena, dagli attori alle scenografie.
Di quali lavori sei più orgoglioso?
Non esistono dei lavori migliori o peggiori, ogni compagnia, ogni regia ha un proprio fascino ed un nuovo modo di proporre la luce. Con Gigi Proietti si lavora in una certa maniera, Vincenzo Salemme è un po’ diverso. Anche con Piparo, questa estate, nel musical Jesus Christ Superstar, con gli attori originali, ho usato la luce in un modo ancora diverso. Mi piace anche lavorare con Giancarlo Sepe, un altro regista sperimentale che propone spettacoli spesso di ricerca, dove la creatività è una dote essenziale. Ognuna di queste esperienze lascia dentro qualcosa e ognuno di questi lavori accresce il bagaglio di esperienza. Con Sepe, all’estero, tra i tanti spettacoli, siamo stati premiati anche per il disegno luce originale, ed anche questo fa parte dell’orgoglio e del bagaglio professionale.
Ti ritieni più un professionista analogico o digitale?
Con il cuore analogico ma con la testa digitale. Inutile dire che l’essenza della luce arriva dalla lampada che si porta dietro di sé tutta una sua poesia. Mentre in questi ultimi anni, per amore o per forza, ci dobbiamo confrontare con tutte le nuove tecnologie che, a discapito di un po’ di poesia, danno tanti benefici sempre più irrinunciabili. In questo ultimo periodo sto prendendo sempre più confidenza con le lampade a LED che offrono tanti bonus, anche se dopo tutto siamo ancora ai primi passi e questa tecnologia dovrà fare ancora un lungo percorso. Stessa cosa, ma forse ancora più evidente con i controlli: oggi è impensabile poter gestire uno spettacolo moderno con dei controlli analogici. Però il fascino di un cursore che va a controllare un dimmer che a sua volta dà corrente ad una lampada, magari anche con un po’ di ronzio sull’impianto audio, ha una sua poesia.
A cosa stai lavorando per il prossimo futuro?
Attualmente sto lavorando a due produzioni: Il Grande Dittatore, commedia tratta dal film di Charlie Chaplin, che debutterà a marzo e la nuova stagione del Globe Theatre di Roma con Proietti.
Cosa ti piacerebbe fare nel futuro?
Mi piacerebbe ancora imparare tanto da quelli più bravi e più creativi di me, cominciando nello stesso tempo a lavorare per il passaggio del testimone alle nuove leve.
Dici? Non mi sembri così vecchio!
Non ho detto che sono vecchio, è una forma di egoismo o narcisismo oppure solo di altruismo: vorrei che del lavoro che faccio, di quello che ho imparato o imparerò, rimanesse traccia e che servisse a qualcun’altro in futuro. Mi accorgo che le nuove leve saltano la gavetta, vogliono subito mettere le mani sulla console digitale da mille canali, tralasciando tutto il percorso naturale della conoscenza della luce, e questo secondo me è un male. Ma, detto questo, non voglio dire che sto lasciando un posto libero dietro la console: ho intenzione di lavorare ancora per molti anni!
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