Quante occasioni perse...
Quanti sogni infranti
Sono circa due anni che ho l’abbozzo di un articolo su quella che all’epoca pareva un’imminente legge per il mondo dello spettacolo. In tempi di magra, si sa, si ricicla anche la spazzatura. Non sempre, ma tendenzialmente sarebbe un’abitudine sana.
Massimo Gramigni, di leggi legate all’universo musicale ha sofferto le pene dell’inferno. Vale la pena raccontare ciò che è segnato a fuoco nelle bibliche pietre del dolore, nella storia della prima legge sullo spettacolo. Siamo all’ultima seduta della Camera del cadente governo Prodi: la legge sulla musica, dopo l’approvazione del Senato, passa alla Camera per la sua definitiva consacrazione. È al 5° punto, quindi è data per certa. Il presidente Luciano Violante la derubrica al 15° e ultimo punto di una scaletta che non vedrà mai il suo completamento. Per questo, quando si parla di legge sullo spettacolo, seppur di destra, il commento di Gramigni diviene laconico e rassegnato, aggrappandosi all’adagio di coloro che di necessità fanno virtù: meglio qualsiasi cosa che niente. Ma anche questa legge è destinata a perire.
L’articolo che avevo in mente per commentare la di nuovo moritura legge sullo spettacolo marcata PDL, non risulterà quindi più attuale e questo sarà il suo necrologio. Era una legge che comunque non mi piaceva; utilizzerò stralci di quello che all’epoca ho scritto e lasciato in attesa della sua - mai avvenuta - approvazione, con la speranza che alla prossima occasione si corregga il tiro.
Mi è stato chiesto di scrivere sulla legge riguardante il mondo della musica, ma forse sarebbe meglio scrivere direttamente di altro. Di un mondo alla Corto Maltese, ad esempio, nel quale la musica è linfa vitale e l’essere umano seppur debole è eroico. Forse una legge che riguarda un tema così delicato l’avrebbe potuta scrivere Pratt e non gli avvocati della Carlucci. Questa normativa, in effetti, è uno strano accrocchio e capisco perché mi sia stato chiesto di interpretarla. Leggendola non sono riuscito a togliermi dal viso il sorriso ebete e imbarazzato di colui che non sa rispondere ad una semplice domanda: dopo questo decreto sarà meglio o peggio?
Le leggi, ci insegnano a scuola, indicano principi e interpretano la definizione dei valori comuni; indicano le direttrici di sviluppo e organizzano in modo che gli obbiettivi, chiari fin dal primo articolo, possano essere raggiunti.
In verità, la lettura dell’art. 1 mi ha messo in una buona predisposizione. Mirabili sono gli articoli 4 e 5, mentre criptico è l’art. 6. Dell’art. 3 ho letto con interesse gli enunciati ed ho pensato che finalmente gli organizzatori avrebbero avuto un loro riconoscimento statuale:
r) la tutela della libera concorrenza nel mercato dello spettacolo dal vivo e il riconoscimento del ruolo svolto dagli operatori privati del settore;
Nell’euforia ho immaginato un mondo idilliaco di persone vestite di bianco che si affrettavano ad accompagnare le vecchiette ad attraversare la strada, fischiettando un motivetto.
Ma dall’art. 3 il buio mi ha avvolto, non capivo come tutto ciò sarebbe potuto accadere.
Questo testo, ne anticipo ora il giudizio, è scritto come un contratto con un’anima linguistica in cui l’eufemismo è la forma retorica più diretta.
Già dall’art. 3 inizia l’istituzione di una quantità industriale di enti (inutili?): fondo, Conferenza, Commissione, Dipartimento. La definizione della Conferenza avviene tra l’art. 3 – Compiti dello Stato – e l’art. 5 – Compiti delle Regioni –, appunto all’art. 4. Lì si legge che la Conferenza dispone del Fondo e generalmente fa quello cha fanno tutti dallo stato al Comune: promuove…
Fino all’art. 6 la legge riallinea le varie competenze – stato, regioni, provincia e comuni –, ripetendo ossessivamente concetti la cui applicazione comporta un’architettura di scala e funzioni analoghe protette da una selva di istituti, commissioni e comitati; le funzioni di questi ultimi si sovrappongono disordinatamente confondendo gli effetti e gli obiettivi tipici della dimensione del soggetto delegato alla regolamentazione: quello che farà lo Stato sarà quello che faranno anche i comuni, con analoghi organismi che regolano lo stesso tema, ognuno fotocopia ingrandita dell’altro. Uno Stato sdoppiato in più soggetti (Conferenza, comitati, dipartimenti, ecc.) che decidono sui soldi e sugli indirizzi culturali, ovvero: semplificano la definizione “cariche con delega all’esercizio della discrezionalità”.
Niente è articolato o omogeneizzato alla natura dei soggetti istituzionali diversi, un verticismo che unisce deleghe tra stato e comuni.
Pericoloso e di bassa efficacia è il meccanismo di tutela sullo spettacolo, stigmatizzato con concetti al cui interno non è difficile trovare richiami locali e di “tradizione”, più valenze alla chimica federalista che una sana e robusta preoccupazione culturale. Una nuova struttura: Osservatorio dello Spettacolo, anch’essa tesa a valutare e promuovere tramite lo “Sportello dello Spettacolo informatico di orientamento, formazione e consulenza in favore dei soggetti che intendono intraprendere attività di spettacolo dal vivo”. Se un quinto delle promozioni andassero per il verso giusto si vedrebbe Pulcinella in programmazione fissa nel Borneo.
Non so quindi rispondere alla domanda se sarebbe stato meglio o peggio, ma so che anche stavolta si riporranno stendardi e striscioni di festeggiamento e che Gramigni non soffrirà del fuoco amico che affossò la prima legge, quella del 1997.
Altra legge stesso destino: il testo unificato sull’acustica. È da anni che vari governi, più o meno serenamente, ambiscono a riscrivere le regole che ad oggi, nella loro organicità e talvolta eccessiva complessità, configgono con alcuni interessi forti: costruttori, stradari, ferrovieri e aeroportuali. L’attuale vacillante governo si è dato da fare a pagare le cambiali sottoscritte con gli stradali (legge 2004 che prescrive ogni forma di rumore nella fascia di 150 m dal limite del profilo autostradale), quella con i costruttori (legge 2009 che congela l’applicazione tra privati del contenzioso sulle case fatte a bischero dove si sente tutto di tutti) e aeroportuali (varie e diversissime norme transitorie sul rumore da traffico aereo). In molte di queste leggi tampone si richiama l’emanando testo unico sull’acustica. Quello che non si conosce a riguardo è che il Ministero dell’Ambiente aveva scritto lo stesso testo da un anno e lo aveva portato al Consiglio dei Ministri per iniziare l’iter di presentazione alle camere. Appena arrivato ha però subito quello che in puro dialetto romano si chiama “rimbalzare”. Il moto descrive esattamente il destino della norma presa e rimandata al mittente con la mussoliniana formula “a miglior tempi”. Come dire: “due cuori una capanna”, ovvero due leggi e stesso destino. Più che leggi appaiono come ranocchi regali: se li baci divengono principi azzurri ma in realtà fino a quel momento (e forse per tutta la vita) non fanno altro che rimbalzare.
Intanto le cambiali sono pagate con l’ambigua ma efficace formula di sospensione “entro mesi 6 dal presente decreto”, e coloro che credono di aver riscosso l’importo della cambiale non capiscono che hanno solo una promessa di pagamento, che di fatto potrebbe essere anche un ricatto. La nostra alta imprenditoria, come si sa, si contraddistingue con l’arroganza. Qualche volta con la scaltrezza ma, ahimé, anche con cocciuta miopia.
Quindi, a dispetto di ogni logica per tutti coloro che hanno messo in scena questo teatrino, il risultato ottenuto va bene così come è ora.
D’altra parte proprio il teatro è stato in passato, e lo sarà sempre, indicatore della società, strumento e modo del sentire comune. Ed è così che l’unica legge che pare abbia preso piede nel mondo dello spettacolo discenda da quanto detto, e sia dunque quella imposta dalla maggiore spregiudicatezza imprenditoriale del settore, dove con la scusa di questa crisi economica si lucra per accumulare profitti sul lavoro delle figure deboli nella catena produttiva dello spettacolo.
Negli anni ’70 lavoravo come “luciaio” da Guido e Sergio Baroni, indimenticabili maestri di illuminotecnica teatrale, a cui devo molto in educazione e logica del lavoro. All’epoca loro sostenevano che tutti i lavoratori dovessero essere pagati. Logica inoppugnabile che nella realtà si traduceva con un salario, già da apprendista, non inferiore agli attuali 1200 €. Poi con l’esperienza il valore cresceva a tal punto che, grazie al lavoro che svolgevo per un equivalente periodo di sei mesi, mi sono potuto permettere nel tempo restante di fare e finire l’università come fuori sede a Venezia.
Ieri l’altro, grazie al mio amico scenografo Massimo Randone, ho ricalcato le scene del Teatro, in una produzione di Roma, dove ho potuto assistere alla peggiore farsa del produttore, la cui unica capacità apparente era quella di imporre salari ai suoi lavoratori, sbracciandosi e sbraitando smodatamente, al contempo, nel descrivere la sua grandezza imprenditoriale. Una sorta di Paperon de’ Paperoni dove la simpatia del personaggio è sostituita da un’avidità fuori dalla misura civile. Conosco il teatro e so che lo spreco e la distinzione sono da aborrire, da sempre, così come la classe è stata sempre faro e talvolta parte della paga per i sacrifici che questo mondo spesso richiede. Mi ricordo ad esempio della signorilità del direttore del teatro Metastasio negli anni ’70, Montalvo Casini, al cui passaggio sia in teatro che in strada pareva discendesse e si declinasse l’intero alfabeto dell’eleganza e del sapere. Era in tutti gli aspetti l’enciclopedia del modo e della creanza a cui la variegata umanità pratese si ispirava. Il bello è che non era una mosca bianca: in quel panorama dirigenziale del teatro italiano, classe e vizi, vissuti con discrezione, erano dispensati a piene mani. Ora, da quello che vedo nel settore, nella sua generalità che ne contraddistingue la cifra, si lesina sulla classe e si sbandierano le immoralità senza mediazione alcuna.
Il teatro vive di sogni e questi emanano dal prodotto, da chi lo produce e da come il pubblico riporta nella sua sfera privata questo strano oggetto che è, a tutti gli effetti, lo spettacolo.
Sono questi i sogni di cui sento la mancanza.