Massimo “Mamo” Pozzoli
Il set e lighting designer dello spettacolo Mechanical Dream di Elisa e non solo...
di Giancarlo Messina
Seguiamo da diversi anni la carriera di Mamo Pozzoli e più volte ne abbiamo parlato nei nostri redazionali. Anche il nostro primo “Best Show”, lo spettacolo Mechanical Dream di Elisa, deve molto alla sua mano, essendone Mamo il set e lighting designer.
a verità è che abbiamo sempre trovato in lui un gusto molto affine al nostro in quello che intendiamo per impatto visivo in un concerto: creatività innanzitutto, quindi idee originali legate al progetto artistico, ma anche ordine, rigore ed eleganza pur nell’apparente caos delle strobo in controluce. Perché gli studi e la formazione culturale di un professionista – ma direi meglio: di un uomo – emergono in ogni cosa che fa: la lettura di un libro è decisamente più importante della perfetta conoscenza dell’ultimo software della nuova console esoterica. In questo senso certamente il diploma liceale e gli studi in architettura, uniti agli inizi teatrali, costituiscono l’humus in cui sono cresciute salde le radici della professione di Mamo.
Nato nel ’65 e cresciuto nell’ambiente milanese, in cui ancor oggi vive e lavora, Massimo esordisce come chitarrista, ma è già iscritto alla facoltà di architettura. Intanto lavora come tuttofare nel mondo del teatro: macchinista, elettricista e quello che capita... Siamo a metà degli anni Novanta, periodo in cui emerge il rock underground, ed il gruppo di Mamo si ritrova a suonare al Centro Leoncavallo insieme ai Marlene Kunz...
“Nel giro del rock alternativo nessuno allora andava in tour con una persona che curava le luci – ci racconta lo stesso Mamo – e mi meravigliai parecchio quando i Marlene mi chiesero di andare con loro in tour come lighting designer o qualcosa del genere. Accettai subito, cercando di seguire contemporaneamente gli studi ed il lavoro in teatro. È così che dal ’95 al 2000 mi sono fatto le ossa in tutti i club d’Italia, lavorando anche per tanti altri gruppi del giro, come Afterhours, La Crus, Blu Vertigo”.
Quindi la tua formazione tecnica è fondamentalmente da autodidatta?
Certamente, allora era normale. Ho cominciato scaricando camion, facendo i cablaggi, lavorando per dei service e contemporaneamente studiavo sui libri le nozioni tecniche necessarie. Penso che i corsi che ci sono oggi siano molto utili, accorciano la strada ed il tempo, anche se poi devono ovviamente essere integrati dalla necessaria gavetta.
Forse la tua capacità di sfruttare le idee più che i mezzi nasce anche da questi inizi dove certo i budget non erano enormi?
Credo di sì, anche produzioni più grandi in seguito mi hanno chiamato per la mia caratteristica di riuscire ad inventare qualcosa di scenografico con budget minimi e tecnologie ancora primitive, se paragonate alle attuali. Fra l’altro mantengo uno stretto contatto col mondo rock alternativo, che sento molto mio, anche se nel corso degli anni ho acquisito un metodo che mi ha permesso di uscire dall’underground ed approdare nel mainstream. Infatti per una serie di coincidenze ho cominciato a lavorare con artisti come Grignani, Antonacci e via via fino a Giorgia ed Elisa con cui lavoro spesso ancora oggi: produzioni importanti, perché i mezzi tecnici e i budget sono maggiori e posso accedere a campi creativi che altrove sarebbero preclusi.
Per creare uno spettacolo interessante è più importante il budget o l’idea? O sono entrambi necessari?
Sarei un ipocrita se dicessi che contano solo le idee, perché certe idee hanno bisogno di budget, ma è altrettanto squallido il budget senza idee, cosa di cui vediamo spesso tantissimi esempi.
Come nasce l’idea di un progetto?
Non credo nell’innovazione pura, credo nel riassemblaggio, cioè nel prendere elementi e suggestioni da tutti i campi del visivo, dal teatro alle mostre d’arte al cinema, per assemblarli con una nuova veste, ovviamente in maniera coerente.
Il rapporto con i colleghi?
Sono una persona molto tranquilla, poco incline alle polemiche, quindi vado d’accordo con tutti; con alcuni colleghi magari ho più intesa perché veniamo da percorsi e realtà simili, e penso a Mariano De Tassis o Jò Campana. Purtroppo il mercato si è ristretto, prima c’era più spazio per tutti, oggi un po’ per la crisi un po’ per l’arrivo di diversi colleghi stranieri è più difficile.
Credi nell’albo dei professionisti?
No, sarebbe una casta o una corporazione. Noi lighting designer essenzialmente siamo dei privilegiati, come tipologia di lavoro: è bene le corporazioni le creino coloro che lavorano 20 ore al giorno in condizioni piuttosto difficili e che hanno cose vere da rivendicare.
Ti senti più un lighting designer o un set designer?
È una domanda interessante! In effetti mi sento un’unica entità, perché per me è innaturale pensare alle luci senza poter progettare le strutture a cui sono appese e le modalità con cui si possono appendere. Quando progetto un set lo faccio sempre pensando alle luci che dovrà contenere, così come quando inserisco dei video li immagino sempre come sorgenti di luce, infatti non entro mai nel lavoro degli altri, come quello della creazione dei contributi video, perché penso che ognuno debba occuparsi di ciò che sa fare per poter avere dei buoni risultati finali.
Allo stesso modo non costruisco scenografie vere e proprie, perché non mi ritengo uno scenografo. Il mio obiettivo è quello di creare ambienti in cui si percepisca chiaramente che i vari elementi non sono slegati, ma pensati da un’unica mano e integrati in un’unica idea.
I professionisti stranieri possono davvero dare di più alle produzioni italiane rispetto ai lighting designer nostrani?
Mah... è una domanda difficile; ci sono diverse congiunture che portano qui gli stranieri, a partire dal fatto che la maggior parte delle più grosse agenzie italiane sono parte di aziende multinazionali. Certamente gli anglosassoni lavorano in un mercato molto più grande e per questo hanno un approccio ed un metodo di lavoro diverso dal nostro, e questa certamente è una cosa che invidio loro: poter esprimere la propria professionalità in un contesto più rodato ed ampio.
Il lavoro di cui sei più orgoglioso?
Quello con Cristina Donà, quattro o cinque anni fa. Con Cristina siamo amici da anni, abbiamo studi comuni e siamo legati da un feeling culturale. Ha deciso di fare un tour, che lei stessa ha prodotto, soltanto insieme a me e ad un fonico. La ditta Fornarini ha sposato il progetto e ci ha dato in sponsorizzazione delle bellissime lampade di design, così ho creato un set costruito solamente con queste trenta lampade appoggiate a terra che mi limitavo ad accendere e spegnere. Un’atmosfera assolutamente magica. È stato il lavoro più bello che abbia mai fatto: con trenta lampade d’arredamento!
Cosa succede se il tuo progetto non piace all’artista?
È una cosa che capita, e non è un dramma. In questo caso bisogna ricalibrare tutto per soddisfare l’artista e rappresentare il suo mondo, com’è giusto che faccia un professionista.
Ridimensionare le produzioni italiane, per motivi di budget o di sicurezza, è un’idea giusta o sbagliata?
Fino a qualche tempo fa avere delle grandi produzioni era positivo, perché erano una locomotiva che trascinava dietro la voglia di emulazione e questo faceva lavorare tutti di più. Adesso invece il treno si è spezzato: la locomotiva – cioè i tour di fascia “A” – è andata avanti da sola, mentre le produzioni minori sono state spazzate via, tanto che la fascia media è quasi sparita o ha enormi problemi di budget. Credo sia necessario ricucire un po’ questa forbice. Per quanto riguarda la sicurezza, credo che la prima cosa sia quella di rendersi conto una volta per tutte delle strutture che ospitano i tour: quelle in grado di ospitare grandi produzioni sono meno di dieci. Io spero di non dover più progettare palchi che poi devono essere assemblati a fisarmonica in base alla location, cosa che è fonte di non pochi rischi anche sotto l’aspetto della sicurezza.
Tu sei un grande appassionato di arrampicata, ma la cerimonia per i Mondiali di Arrampicata in Trentino te l’ha fregata Mariano De Tassis!
Caspita, è vero! Però Mariano, con cui sono molto amico, mi ha anche telefonato per darmi questa anteprima e devo dire che lui ha fatto un ottimo lavoro. Però voglio trovare un modo per unire questi due mondi, infatti inizio a progettare sempre più in verticale: fra l’altro i “palchi verticali”, cioè con i musicisti che suonano sui diversi balconi di un palazzo, sono anche l’ultima tendenza...
Tormentone finale: qual è il tuo sogno nel cassetto?
Avere un parco luci così enorme da permettermi di usare un solo faro per volta. Cioè lavorare sul buio più che sulla luce. A me piace sempre di più scavare, cioè arrivare all’essenza ed all’assenza di luce. Insomma aspiro al dark designer!
contatti: Massimo "Mamo" Pozzoli