Massimo Ferranti
Siamo andati fino a Roma ad incontrare Massimo Ferranti, figura chiave dell’azienda ABC.
di Alfio Morelli
In questi ultimi tempi stiamo incontrando alcuni personaggi che, in un modo o nell’altro, hanno fatto la storia del nostro settore. Questa volta siamo andati fino a Roma ad incontrare Massimo Ferranti, figura chiave dell’azienda ABC.
Il racconto ha inizio nell’anno ’77, quando, ci rivela Massimo Ferranti, “tutto cominciò durante la scuola, con l’organizzazione di un evento estivo denominato “Estate al Convento Occupato”. In questo convento, durante le vacanze scolastiche, si organizzavano concerti, spettacoli teatrali ed altre manifestazioni artistiche. Chi li ha vissuti ricorda quegli anni, attraversati da un grande fermento giovanile: tutti volevano dire o fare qualcosa. Il livello organizzativo era proprio ai minimi termini: pochi soldi e poca professionalità, compensati però da tanto coinvolgimento e tanto divertimento. A quell’epoca bastava poco per riempire il giorno ed andare a letto soddisfatti, anche se poi, alla fine dei conti, non si era fatto gran che.
“Dopo questa prima esperienza fui chiamato come tecnico dal mitico gruppo “Il Rovescio della Medaglia”, con cui feci diversi concerti. L’anno successivo mi proposero di occuparmi del montaggio e dello smontaggio della batteria (oggi si chiamano backliner) di Pierluigi Calderoni, batterista del Banco del Mutuo Soccorso. “Feci carriera e fui promosso a responsabile della tastiera e poi delle chitarre.
“Erano gli anni in cui Angelo Branduardi stava avendo molto successo anche all’estero – ricorda Massimo – e la sua produzione, sul finire degli anni Settanta, chiamò me e gli altri del team per il tour europeo: venni assunto con il compito di gestire il palco, mentre Willy, mio compagno di stanza, era il fonico, ovviamente insieme a tanti altri tecnici. Facemmo oltre cento date, prevalentemente all’estero. Allora non c’erano delle mansioni ben precise: finito il proprio lavoro bisognava occuparsi dell’organizzazione generale, ed io, assieme al mio amico Watts avevo anche il compito di far rimontare tutto il materiale sul bilico; ricordo che già ai primi pezzi dei bis cominciavamo a movimentare il materiale dal palco per immagazzinarlo sul camion, operazione per cui impiegavamo al massimo 30 minuti”.
Quando ti sei messo in proprio?
“Dopo qualche tournée, questo ruolo cominciò ad andarmi stretto, così insieme ad altri colleghi fondammo una cooperativa denominata “Cooperativa Scossa”. Il nome ricordava quello del service “La Scossa” creato in quegli anni dai fratelli Zard, Davide e Dori, per gestire alcuni loro artisti. Come ovvio, anche noi lavoravamo prevalentemente per loro. Sempre in quel periodo, ci venne in mente, insieme ad un signore di Modena, il signor Rossi, di costruire un impianto audio denominato “HQ”, che i più vecchi di questo mestiere ancora ricordano: altoparlanti Gauss, finali SAE e processori dbx. Con questo facemmo tante belle tournée, da Branduardi a Pino Daniele, passando per Toni Esposito, Venditti e tanti altri. Come ho detto, allora non avevamo una competenza ben definita: in un tour facevi il backliner, nel successivo montavi l’impianto o le luci, in quello dopo eri direttore di palco. Solo col tempo ognuno acquisì una specializzazione propria e si delinearono sempre di più le professionalità.
Quale lato del lavoro ti piaceva maggiormente?
Un lavoro che sentivo sempre più mio era quello dell’organizzazione, prima come direttore di palco poi come direttore di produzione. Così arrivò la mia grande opportunità: il primo concerto dei Pink Floyd in Italia, a cui ne seguirono altri. In questo contesto conobbi due personaggi che si rivelarono fondamentali per la mia professione: Robby Williams e Morris Lyda, due direttori di produzione dei Pink Floyd da cui imparai le regole fondamentali di questo lavoro. Dopo quell’esperienza mi venne proposto, ed io accettai, di produrre il tour europeo Il Ladro di Branduardi. Mi occupai della progettazione, della realizzazione e della vendita delle singole date, insomma un servizio “chiavi in mano”, e in un’avventura del genere il modo schematico di ragionare, la disciplina quasi militare e le tante ore di lavoro imparate dagli inglesi furono decisive.
Ricordo che con Ciccio De Lazzari, altro mio compagno di viaggio, per uno spettacolo in Toscana non dormimmo per ben 72 ore, una cosa oggi giustamente impensabile. A volte, ripensandoci, mi viene da sorridere: cercavo di adottare gli insegnamenti degli inglesi, che erano certo sacrosanti, ma con la piccola differenza che loro lavoravano con dei budget dieci o venti volte superiori ai nostri e si trovavano a fare degli spettacoli in venue adatte allo scopo, mentre noi ci trovavamo ad organizzare spettacoli nei posti più improbabili, dove mancava tutto e ci dovevamo inventare l’impossibile.
Sono passati da allora diversi anni: cosa rimane oggi di quelle esperienze?
Durante la mia carriera ho conosciuto tantissima gente che si è avvicinata a questo lavoro, anche se poi molti hanno mollato, preferendo un lavoro più “normale”. Qualche tempo fa ho incontrato per caso un amico che da ragazzo aveva cominciato con me a fare il tecnico; lo ricordavo con un portamento da vero rocker, capelli lunghi, tatuaggi e piercing; l’ho ritrovato come impiegato all’aeroporto di Firenze, logicamente con un look appropriato e parecchio cambiato. Ma mi capita anche di incontrare altri ragazzi, dico ragazzi di allora, impegnati a gestire produzioni di primo piano a livello internazionale, dai Duran Duran ai Genesis o David Bowie. Mi viene in mente un aneddoto che, visto col senno di poi, fa sorridere. Era il 1987, data dei Genesis a San Siro, io ero impegnato come direttore di produzione. Un mio amico tecnico mi chiese un pass che io gli procurai.
Alla fine del concerto venne da me il direttore di produzione dei Genesis e mi disse che gli era sparito un Vari*Lite. Tutti cademmo dalle nuvole e io non riuscii a dare alcuna spiegazione, perché in realtà non ne sapevo niente. Solo alcuni anni dopo venni a sapere che era stato il mio amico al quale avevo dato il pass il responsabile del furto: consapevole del valore dell’oggetto che aveva sottratto, lo aveva portato ad un’azienda italiana di luci che, guarda caso, dopo due anni uscì con un prodotto analogo!
Tornando alla mia storia, in quel periodo mi dedicavo sempre più alle produzioni, collaborando con Roberto De Luca ai primi Heineken Jammin Festival a Imola, al 1° Maggio a Roma, ecc. Da quelle esperienze mi venne voglia, insieme ad alcuni colleghi, di iniziare una nuova avventura dando vita ad una società denominata “Produzioni”. In quegli anni si stava aprendo un nuovo mercato, quello delle convention, e le aziende cercavano altre aziende che potessero offrire loro servizio e professionalità nell’organizzazione. Cominciammo così con alcuni eventi secondari per poi arrivare ad organizzare spettacoli di primaria importanza, e l’azienda si trasformò di nuovo, diventando ABC srl.
Fra le altre cose, nel 2002 fui incaricato di organizzare, alla fine dei giochi olimpici di Salt Lake City, la presentazione delle Olimpiadi di Torino, che si sarebbero tenute quattro anni dopo. Fu una nuova sfida: per organizzare uno spettacolo di sei minuti il mio staff ed io lavorammo intensamente per oltre tre mesi. In seguito a quel lavoro partecipai anche alle Olimpiadi di Torino con altri ruoli, per poi organizzare, qualche settimana dopo, la cerimonia di apertura delle Paraolimpiadi. Un lavoro incredibile! Con un budget decisamente povero riuscimmo a produrre uno spettacolo veramente coinvolgente e in quell’occasione arrivarono anche i complimenti ufficiali dello IOC (Comitato Olimpico Internazionale).
Hai un lavoro che ricordi con particolare orgoglio?
Sicuramente i Pink Floyd, il più importante, il lavoro che mi diede il la, ma anche l’apertura delle Paraolimpiadi: tutto lo spettacolo doveva partire con il segnale di un telecomando da pochi euro; se non avesse funzionato si sarebbe rovinata tutta la cerimonia di presentazione! Fortunatamente funzionò e tutto lo spettacolo partì. Fu veramente coinvolgente: non ricordo bene, ma per l’emozione e l’improvviso calo di tensione, probabilmente mi misi a piangere.
Se Massimo Ferranti non avesse organizzato concerti, cosa avrebbe fatto nella vita?
Difficile a dirsi; avevo iniziato l’università nella facoltà di Giurisprudenza. Forse avrei fatto l’avvocato, però pensandoci bene l’avrei vista difficile... non me lo sento nel DNA.
Come vedi oggi il mercato degli eventi in Italia?
Senza per forza essere negativi, non lo vedo bene. Ultimamente succede sempre più spesso che pur di abbassare i prezzi, si sopperisce con la tecnologia alla mancanza di professionalità e di esperienza, cercando di mischiare le carte in tavola. Questo è un modo per far crescere le nuove aziende nel settore molto rapidamente, ma è un modo di fare molto pericoloso, perché se queste aziende poi non si organizzano in fretta c’è il pericolo che si trovino con i “piedi d’argilla”, affogate dai debiti di materiale acquistato e con molti crediti da riscuotere, e a quel punto le strade sono due: o si chiude o si viene assorbiti.
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Ne avevo uno: quello di smettere di lavorare una volta finito il lavoro delle Olimpiadi; ma siamo ancora qua a parlarne dopo quattro anni... forse qualcosa non ha funzionato, oppure dovrò aspettare le prossime Olimpiadi organizzate in Italia!
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