Marco Monforte - Fonico FOH
Il 17 dicembre al Mandela Forum abbiamo intervistato la squadra di Biagio Antonacci.
Marco Monforte, fonico FOH, con Carlo Carbone, neo giornalista.
La scelta di Biagio e della sua produzione è stata coraggiosa. Il palco al centro è da sempre una scelta controversa: se per il pubblico è uno spettacolo appagante, per la produzione è un lavoro impegnativo. Intervistiamo gli addetti per farci raccontare la nascita e le sfide di questo tour.
Marco, molti sostengono che il fonico sia il componente aggiuntivo del gruppo. Tu hai sempre sostenuto che ti senti più un esecutore. Spiegaci il tuo punto di vista.
Continuo a sostenere la mia tesi, e per farlo devo spiegare il mio lavoro. Inizio con incontrare l’artista e il direttore musicale, facendomi spiegare precisamente quello che vogliono. Chiedo un paio di giorni e tramite due piccoli monitor espongo quello che ho inteso del progetto. È successo che la parte artistica mi dicesse “no, io non l’avevo pensata così”, e allora ho dovuto lavorare per raggiungere il livello richiesto. Arrivati al risultato finale, chiedo un altro po’ di tempo: devo andare nel palazzetto dove, come in questo caso, Antonio sta montando il PA, e con lui devo trovare il punto che l’artista ha approvato. Poi, prima delle prove richiamo la parte artistica e ascoltiamo con l’impianto del tour quello che abbiamo preparato. Naturalmente quello che esce dai piccoli diffusori è diverso da quello che esce da un PA, quindi può essere che vada tutto bene o può essere che ci vogliano ancora degli aggiustamenti. Una volta trovato il punto d’incontro, il mio compito è quello di fare ogni show allo stesso modo. Ogni sera consegno all’artista e al direttore musicale una registrazione dello spettacolo, dove il direttore musicale può ascoltare come hanno suonato i vari componenti della band e il risultato finale del mio lavoro.
Ecco perché mi sento un esecutore: il mio compito è allinearmi il più possibile al direttore musicale e lavorare all’unisono, in modo che la band renda al meglio e l’artista si senta il più sereno possibile sul palco. Il mio ruolo si limita al dare consigli o proporre soluzioni, ma la decisione finale è del direttore musicale e dell’artista.
In altre situazioni però ti ho visto con un’altra divisa!
Immagino che tu ti riferisca al tour di Cremonini. In quel tour io non facevo il fonico – che era Antony King – bensì il responsabile tecnico. Ero responsabile del reparto audio, mi dovevo assicurare che tutto il materiale fosse stato montato bene e funzionasse al meglio. Poi, se la chitarra era troppo avanti o troppo indietro, non era compito mio intervenire: c’era un altro professionista che occupava quel ruolo.
Arrivi da un percorso musicale o da altre esperienze?
Io non sono un musicista, ho studiato ingegneria. E a proposito di questa domanda, vorrei aggiungere un mio pensiero. A volte essere un musicista può essere controproducente: si rischia di affrontare la problematica da un punto di vista troppo personale. Penso che, oltre a un buon orecchio, si debba avere una mente libera per elaborare in maniera più neutra possibile le criticità che ti vengono sottoposte. Altrimenti rischi di essere coinvolto emotivamente e prendere delle decisioni sbagliate.
In questi ultimi anni, in cui i PA sono diventati molto potenti, in molte situazioni c’è la tendenza a esagerare con il volume.
Non penso che sia una questione di tendenza, ma una situazione di tensione. Mi spiego meglio: per molti fonici stranieri iniziare un tour significa fare tra le cento e le duecento date all’anno; questo li porta ad affrontare lo show in un modo molto tranquillo e rilassato. Se sono lì è perché se lo sono meritato e non devono dimostrare niente a nessuno; se subentra un problema lo sanno risolvere. Nel mercato nazionale, invece, i grossi tour negli stadi o nei palazzetti fanno dieci o quindici date. Per il fonico ogni data è come tirare un rigore in una finale, e con quella tensione spesso il risultato è quello che dici tu.