Pino Quini
Direttore della fotografia della RAI impegnato negli ultimi anni nelle più importanti trasmissioni...
di Alfio Morelli
Il personaggio di questo numero è Pino Quini, direttore della fotografia della RAI impegnato negli ultimi anni nelle più importanti trasmissioni, dal Festival di Sanremo ai programmi del sabato sera di Fiorello e Celentano.
Ma come si arriva a ricoprire questo ruolo? Quale la sua storia. Ce lo siamo fatti raccontare spartanamente seduti dietro una console luci in mezzo al campo di battaglia...
Pino, come hai iniziato questo lavoro?
Ho cominciato lavorando in RAI, di cui sono dipendente da 28 anni. Prima di entrare in RAI mi occupavo sempre di luci, insegnando alla scuola di cinematografia di Roma, questo per almeno 8-9 anni. In RAI ho poi fatto tutta la trafila del caso: si diventa cioè direttori della fotografia dopo aver fatto una certa gavetta, prima come operatore di macchina e poi via via con lavori di ripresa sempre più complicati finché non si comincia a mettere qualche luce in modo autonomo; poi, ma non sempre, si fa il salto, e se la RAI lo ritiene opportuno diventi direttore della fotografia. A quel punto non sei più operativo sotto il punto di vista della ripresa, non lavori più alla macchina ma ti occupi solo di luci.
Io sono direttore della fotografia dal ‘95.
Qual è la tua formazione?
Sono diplomato in energia nucleare. Poi ho studiato ingegneria, ma mi sono fermato a due esami dalla laurea. Ad un certo punto ho avuto un rifiuto per la tecnica ed avevo delle parentele che mi hanno spinto ad occuparmi di cinema, quindi ho cominciato a girare documentari ed altre cose del genere; in seguito mi fu proposto da alcuni amici di partecipare ad una selezione per diventare insegnante alla scuola di cinematografia, dove in effetti iniziai ad insegnare fisica; poiché associati al laboratorio di fisica c’erano i laboratori di ripresa televisiva, di cui io divenni subito un appassionato, cominciai quasi a fare l’assistente volontario a questo laboratorio, mentre fuori facevo l’operatore cinematografico. Così quando andò via il titolare, misero me ad insegnare in quel laboratorio, anche perché intanto avevo preso un’autorizzazione ministeriale per quel tipo di insegnamento.
In RAI esistono troupe cinematografiche?
Un tempo sì. Ad esempio gli sceneggiati RAI prima erano tutti prodotti in proprio, c’era quindi una sezione cinematografica che aveva due grandi troupe che producevano due sceneggiati all’anno. Erano due troupe cinematografiche complete di tutto, e qui ho fatto inizialmente esperienze di tipo cinematografico. Anche i servizi dei TG erano prodotti sui famosi 30 metri di pellicola, una quantità molto ridotta che richiedeva un girato quasi già buono per l’utilizzo. Questo significava che occorreva una buona conoscenza del linguaggio cinematografico, perché ad esempio le inquadrature dovevano avere certe caratteristiche, evitando ad esempio di riprendere gli stessi soggetti e sprecare pellicola. Poi con l’avvento dei nastri, per non dire del digitale, tutto è diventato più semplice: si poteva tornare indietro, cancellare, avere comunque molta più libertà.
In RAI non esisteva la TV, ma il cinema portato in TV, perché si lavorava con le stesse metodologie del cinema. Adesso è tutta TV, è rimasto solo il linguaggio cinematografico, ma il mezzo tecnico è completamente diverso. Forse le luci bianche sono rimaste tecnicamente piuttosto uguali e c’è anche la ricerca di un proprio stile, tanto che in TV non si parla di lighting designer ma di direttore della fotografia, una professione prettamente cinematografica.
Nel tuo lavoro, quali sono le differenze fra cinema e televisione?
In TV le problematiche sono dilatate al massimo, ci sono da controllare tantissimi fattori contemporaneamente che possono influenzare il tuo lavoro. Occorre avere 100 occhi, perché basta la luminosità, ad esempio, degli schermi LED perché ogni previsione fatta a tavolino diventi assolutamente inattendibile.
Siamo in un periodo in cui le luci vere e proprie sono in secondo piano, anche i live sono ormai basati sugli schermi, ne stanno inventando di tutti i colori…
Certo è rimasto il gusto della fotografia, perché è rimasto il piacere di vedere un volto illuminato correttamente secondo criteri cinematografici, un’inquadratura dolce o drammatica, valorizzata dalle luci e non buttata lì senza espressioni.
Inoltre in TV ci sono così tante telecamere che è impossibile pensare un’inquadratura precisa per tutti gli angoli di ripresa possibili! È per questo che fare il direttore della fotografia qui in TV è molto più difficile che nel cinema. Lì ovviamente il problema è artistico, è cioè quello di evitare riprese banali, di creare un proprio stile, ma qui in TV c’è la difficoltà di dover prevedere tutto quello che ti può succedere, perché ci sono delle situazioni che potrebbero spiazzarti: adesso le telecamere non solo sono tante, ma si muovono, e non stanno nemmeno più in piano, stanno sul pavimento, ma anche in aria, e poi, a volte guardano per aria a volte guardano il pavimento, quindi non esiste in pratica un campo che non venga ripreso. Il regista cinematografico invece deve pensare ad un campo per volta, quindi può curare alla perfezione l’illuminazione. Qui bisogna invece raggiungere i migliori risultati possibili, e ti assicuro che quando si riesce a curare una scena in maniera perfetta è sicuramente… un puro caso! Se sei un bravo professionista più che altro riesci a non commettere troppi errori, considerando tutte le varie angolazioni di ripresa possibili, ma è praticamente impossibile che tutte le inquadrature siano perfette!
Quindi in cosa consiste la bravura del direttore della fotografia televisivo?
Anche qui puoi avere un tuo stile, perché puoi decidere il materiale ed i proiettori con cui lavori, e qui sta tutta la tua maestria. Dalla scelta dei proiettori e dal loro posizionamento dipende il tono fotografico delle scene. Io, ad esempio, amo molto lavorare in controluce, ma bisogna poi saper gestire al meglio e governare tutta la luce che entra negli obiettivi; perché un’altra cosa che occorre conoscere come le proprie tasche sono le telecamere, un elemento in più rispetto al cinema, dove occorre conoscere soltanto le pellicole che, per altro, possono essere ritoccate a posteriori. Qua i punti di vista sono contemporanei: le luci che mandi sono in controluce da una parte, ma dalla parte opposta no! Bisogna quindi capire la reazione delle camere alle stesse luci ma nelle diverse angolazioni di ripresa, e creare passaggi dolci anche fra un campo ed un controcampo. Anche perché qui gli scenografi vogliono stupire, quindi usano materiali nuovi, spesso riflettenti, che una volta erano banditi dalla TV perché creano moltissime complicazioni per la diffusione luminosa. Anche l’allestimento tecnico è molto più complicato rispetto ad una volta, tanto che anche le strutture di alluminio diventano scenografia e le usiamo per proiettarci sopra le luci. Aggiungi poi il non piccolo dettaglio che i programmi sono in diretta e che non c’è margine di errore, non c’è un secondo ciak!
In questo senso la tecnologia è di aiuto o complica le cose?
Oggi il rischio è quello di una certa involuzione, oppure di usare a sproposito le tecnologie. Ad esempio io odio quando si usano alcuni mezzi dotati di potenzialità enormi, come i testamobile, che a noi arrivano dall’ambito dei concerti live, in trasmissioni che non ne avrebbero affatto bisogno.
D’altro canto con le lampade a scarica e con le possibilità offerte degli scanner e dai motorizzati per noi si è aperto un nuovo mondo, perché fare certe colorazioni con le alogene e le gelatine era una cosa difficilissima. Tutto ciò ha comunque complicato mostruosamente il nostro lavoro, ma lo ha anche un po’ “inflazionato”, perché c’è il rischio che chiunque possa fare un po’ di movimento e di effetti senza avere sostanza reale sotto.
Un lavoro particolarmente impegnativo?
Al Teatro 5 di Cinecittà con la scorsa edizione del programma di Morandi. Ho impiegato più di 300 motorizzati, quasi 400 PAR, ACL a non finire, sagomatori per dipingere sulle scenografie, tre console effetti… e ben 15 puntate in diretta! Ho fatto un lavoro di disegno che mi ha riempito di soddisfazione, proprio per la sua difficoltà.
Ho poi curato tutti gli spettacoli di Fiorello che mi hanno dato l’opportunità di lavorare con ospiti rinomati a livello internazionale. Lì la difficoltà è stata adattarsi al piccolo studio ed incastrare tutte le luci dentro le scenografie.
Com’è il rapporto con gli scenografi?
È molto delicato: io cerco di non entrare a gamba tesa, ma occorre far vedere che ci sei, non fare solo luci dall’alto. Per entrare con le luci in campo bisogna mettere le luci in mezzo alla scenografia, e le luci quando sono spente sono veramente brutte da vedere, con tutti quei cavi e cavetti… Bisogna sempre essere diplomatici e relazionarsi per fare un buon lavoro generale.
La tecnologia più ostica?
Nessuna in particolare. Non opero direttamente sulla console, perché preferisco concentrarmi sul lavoro, mentre nel live il lighting designer è spesso anche operatore. Io lavoro molto al computer, malgrado i miei 50 anni, però non mi sono mai avvicinato all’uso della console perché non ne ho mai avuto bisogno, avendo a disposizione dei bravi operatori. So come funziona, perché penso che un direttore della fotografia debba saper tutto di quello che fanno i collaboratori, ma non ho mai fatto uno spettacolo premendo fisicamente i bottoni.
Ricordi un lavoro che non ti ha soddisfatto?
La cosa che mi è riuscita peggio è recente! Ci siamo trovati a montare un impianto complesso in un solo giorno, era un premio in diretta TV e la fotografia era veramente terribile… ognuno andava per conto suo, i proiettori non erano stati tarati per ragioni di tempo… insomma è andata perché doveva andare!
Il sogno nel cassetto di Pino Quini?
Sempre quello di una volta: fare un bel film, tornare alle mie origini, fare cinema, la passione per cui avevo abbandonato gli studi. Forse la scelta della RAI è stata la scelta di una vita più sicura, ma il grande sogno di fare del cinema è rimasto.
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