Bilanciato o sbilanciato, questo è il problema - prima parte
A prima vista sembrerebbe un amletico dubbio di Shakespiriana memoria ma...
A prima vista sembrerebbe un amletico dubbio di Shakespiriana memoria ma, pur lasciando perdere Amleto buonanima, il dubbio rimane. Nel mio continuo girovagare presso studi di registrazione e service ho spesso l’occasione di ascoltare complesse elucubrazioni su come connettere due apparecchi. Spesso si tratta di considerazioni corrette ma, purtroppo, molto più frequentemente, errate.
Cercherò di fare il punto della situazione per capire vantaggi e svantaggi dei diversi tipi di connessione, il perché ed il percome, nonché tutte le problematiche connesse.
Per prima cosa permettetemi di smentire la comunissima convinzione che “bilanciato” sia sinonimo di “alta qualità”: è una cosa assolutamente inesatta. Occorre invece rendersi conto che l’utilizzo di linee bilanciate è determinato esclusivamente dalla pura necessità.
Nel seguito risulterà chiaro che le connessioni bilanciate sono decisamente più complesse, dal punto di vista elettronico, rispetto alle connessioni sbilanciate, e questo porta ad inevitabili compromessi rispetto a qualità – intesa come banda passante e distorsione – e praticità d’uso.
Com’è noto, tutte le leggende hanno una lontana fonte di verità e questa non fa assolutamente eccezione.
Per avere una spiegazione convincente dovremo fare una regressione storica di circa 60 anni e tornare agli inizi del broadcast e della discografia.
Nei lontani anni ‘50 il termine hi-fi doveva ancora essere inventato, le apparecchiature di trasmissione, registrazione e riproduzione erano decisamente rudimentali. Trascurando distorsione e banda passante, parametri ancora poco presi in considerazione, fruscio (noise) e più ancora ronzio (hum) erano all’ordine del giorno.
Le cause principali di questi problemi erano due: campi magnetici a bassa frequenza, generati da trasformatori e motori, e campi elettrici ad alta frequenza generati da trasmettitori abbastanza rudimentali che emettevano una grande quantità di armoniche. Se questi disturbi potevano a malapena essere tollerati in una periferica come, ad esempio, una radio casalinga di bassa qualità, non potevano certo essere ammessi dove si utilizzavano apparecchiature professionali di alto livello (per quei tempi). L’unico modo per eliminare, o almeno attenuare, tutti questi disturbi era quello di utilizzare solamente linee audio bilanciate. Da ciò è nata la credenza (pur esatta per quei tempi) che bilanciato fosse indice di qualità.
Poi, però, le cose sono cambiate. Negli anni ‘60 c’è stato il boom del mercato hi-fi e subito dopo si è sviluppata la tecnologia a stato solido. Questo ha portato ad una vera e propria rivoluzione, sia in campo tecnologico che commerciale. Mentre nel settore hi-fi (tutto sbilanciato) forti interessi commerciali hanno coinvolto grandi imprese industriali ad investire in ricerca e sviluppo portando la qualità ad un livello quasi esasperato, in campo professionale (tutto bilanciato) il mercato decisamente più ridotto ha costretto i produttori a rimanere su tecnologie più tradizionali.
Se nello stadio iniziale il mercato hi-fi ha acquisito tecnologia dal mercato professionale per poi superarla di molte lunghezze, negli anni successivi c’è stata una inversione ed il mercato professionale ha attinto a piene mani dalle tecnologie hi-fi più sofisticate. Se a tutto questo si aggiunge il fatto che realizzare in/out bilanciati è tecnologicamente molto più difficoltoso che realizzare in/out sbilanciati, ci si deve rendere conto che l’assioma “bilanciato = buono” non è assolutamente veritiero.
Fatto questo breve ma dovuto preambolo storico, sembra doveroso porsi una più che logica domanda: se è vero che i disturbi ambientali sono quasi scomparsi e fare linee bilanciate è tecnologicamente difficoltoso, perché continuiamo a farle? La risposta è presto data: se da un lato sono diminuite le fonti di disturbo, dall’altra è aumentato a dismisura il numero delle connessioni creando un nuovo problema, la diafonia. A questo va aggiunto che aumentando il numero delle apparecchiature i consumi di corrente sono molto maggiori, creando notevoli problemi riguardanti le connessioni delle masse.
Andremo di seguito a vedere come funziona una connessione, poi vedremo come può essere realizzata, se e dove serve, infine i collegamenti misti bilanciato/sbilanciato.
Inizieremo analizzando la connessione più semplice, quella sbilanciata.
Come si può vedere nella figura 1a, lo stadio di uscita, normalmente a bassissima impedenza, invia il segnale su un solo conduttore all’ingresso della stadio successivo, normalmente ad alta impedenza, mentre il ritorno avviene tramite la massa (frecce verdi) tenendo presente che le masse delle due unità sono collegate fra di loro (massa comune).
Vediamo cosa succede avvicinando al cavo una fonte esterna di disturbo.
Il segnale indotto di disturbo (frecce rosse) non avrà effetto sulla linea di massa sia perché questa avrà una resistenza praticamente nulla, sia perché la linea di massa è a potenziale zero (terra). Ne deriva che il segnale di disturbo verrà captato solo dal conduttore di segnale e quindi sommato al segnale audio.
La tecnologia attuale permette di realizzare questi stadi sbilanciati semplicissimi in modo quasi perfetto per cui, in assenza di disturbi esterni, questa tipologia di connessione è estremamente valida.
Analizziamo adesso una linea bilanciata (figura 1b), in cui la connessione è effettuata con un cavo a 2 conduttori + lo schermo. Come indicato dalle frecce verdi, il segnale audio viene inviato tramite un conduttore (denominato “fase +” oppure “lato caldo”) e ritorna in fase invertita tramite il secondo conduttore (denominato “fase –” oppure “lato freddo”). Lo schermo, oltre che naturalmente a schermare, collega tra di loro le masse delle 2 unità. Qui possiamo notare una prima differenza: mentre nella connessione sbilanciata non si può disconnettere lo schermo (oppure le masse) perché questo funge da conduttore di ritorno per il segnale, nella connessione bilanciata è possibile, almeno teoricamente, disconnettere lo schermo (da un solo lato) perché questo non partecipa alla conduzione del segnale. Ho scritto “teoricamente” perché questa disconnessione può generare problematiche di altro genere, che discuteremo in seguito.
Se, come abbiamo fatto precedentemente, avviciniamo una fonte esterna di disturbo, questa indurrà un segnale in modo uguale su tutti e due i conduttori (frecce rosse). Come appare evidente, mentre il segnale audio attraversa lo stadio ricevente per poi tornare indietro, il segnale di disturbo (pur presente su tutti e due i conduttori) non attraverserà lo stadio ricevente perché, essendo in fase, si annullerà al suo ingresso provocando la cancellazione del disturbo medesimo.
In teoria, basterebbe inserire due trasformatori (traslatori) sugli stadi sbilanciati del nostro primo esempio, e tutti i nostri problemi sarebbero risolti. Invece no, i nostri problemi sono appena cominciati. Perché? Perché fra la teoria e la pratica il passo è spesso molto più lungo di quanto si possa immaginare.
Cominciamo ad analizzare la soluzione di bilanciamento con traslatori, che in teoria sarebbe quella perfetta se, c’è sempre un se, i traslatori fossero perfetti. Purtroppo il traslatore è l’elemento più debole di tutta la catena, quello più difficile da progettare/realizzare ed il più costoso ed ingombrante.
Quali sono le problematiche da affrontare per costruire un buon traslatore?
Innanzitutto occorre usare un nucleo ad alta permeabilità (ferro a grani orientati, mu‑metal, ecc.) di sezione abbastanza grande e con molte spire per garantire un buon livello indistorto alla basse frequenze. Però tante spire portano ad un aumento della resistenza degli avvolgimenti, ad un aumento della capacita tra le spire e quindi ad una attenuazione delle frequenze alte. Come si vede il famoso detto “non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca” trova applicazione anche in elettronica, per cui un traslatore sarà sempre frutto di un compromesso tra le varie specifiche.
Pochi invece sanno che per ottenere una giusta risposta in frequenza (e quindi in fase), l’uscita del traslatore deve essere caricata con un giusto valore di impedenza. I traslatori, essendo elementi induttivi, hanno una loro frequenza di risonanza che dovrà essere molto oltre il limite superiore della banda audio. Più la frequenza di risonanza è alta (è bene sia oltre i 100 kHz) e più è basso il picco di risonanza, migliore sarà il traslatore. La figura 2 mostra la curva di risposta in frequenza tipica di un traslatore con l’uscita non caricata (linea rossa), con il carico appropriato (linea verde) e con un carico troppo basso (linea blu).
Con i medesimi colori è indicato (in modo stilizzato) il relativo andamento nel tempo della risposta all’onda quadra.
Nel caso di un traslatore di ingresso, questo problema è semplificato perché il carico del traslatore è noto, per cui il progettista potrà compensarlo in modo ottimale semplicemente inserendo una resistenza ed eventualmente un semplice filtro RC (figura 3a). Un traslatore di ingresso, inoltre, è di più facile realizzazione perché, lavorando tipicamente con un carico ad alta impedenza, dovrà erogare correnti molto basse riducendo la potenza e quindi le dimensioni ed i costi.
Nel caso di un traslatore di uscita saranno presenti gli stessi problemi, complicati dal fatto che il carico esterno sarà molto variabile e le potenze in gioco molto più alte. Normalmente i traslatori sono progettati per un carico esterno di 600 ohm, ma il più delle volte sono collegati ad un ingresso di linea che presenta un’impedenza tipica pari a 10/20.000 ohm (figura 2 – linea rossa). In questi casi, per ottenere un buon accoppiamento, è necessario inserire sulla linea un carico appropriato. La soluzione ottimale sarebbe quella di inserire sull’uscita un carico variabile (ad esempio un potenziometro) che, essendo posto in parallelo con il carico esterno, potrebbe essere regolato per ottenere il carico ottimo. Questa soluzione, anche se tecnicamente esatta, è però assolutamente utopica, perché è troppo complicata per un uso normale.
Un’ottima usanza, oggi purtroppo quasi abbandonata, era quella di installare sulle uscite una resistenza di carico inseribile tramite uno switch (figura 3b).
Inoltre un traslatore di uscita deve poter sopportare una potenza pari a quella fornita dallo stadio di uscita che normalmente, nelle apparecchiature audio professionali, arriva al massimo a +24/+28 dBu (circa 12/20 V) su un carico di 600 Ω.
Nel prossimo numero proseguiremo sull’argomento trattando il bilanciamento elettronico e le connessioni miste.