Stanotte dalla finestra dell’albergo vedo volare i gabbiani.
Non riesco a parlare di te se non per frasi smozzicate, perdonami.
Illuminati da sotto dai palazzi accesi, dalle vetrine e dalle strade di Roma, sembrano sottili come fogli di carta, luminescenti sul nero del cielo. Volano senza sbattere le ali, sostenuti dall’aria calda che sale dalla città sottostante.
Oggi è stata una delle giornate dell’AES, finalmente in Italia.
Ad Amsterdam andammo Lino ed io. Finite le riunioni e i papers, ci prendemmo un giorno per noi, ci sentivamo eccitati e un po’ colpevoli come se avessimo bigiato la scuola.
Mi disse che Amsterdam si poteva girare a piedi e mi portò a Wunder Park. Lì da ragazzo era stato un hippy. Dormiva nel parco: il clima mite fa crescere i fiori e accarezza le ore del sonno quando il tuo mantra è pace amore e musica.
Mi indicò una stradina al di là della recinzione: “Vedi – disse – lì è dove la polizia mi portò via la macchina per divieto di sosta, dovetti andare a prenderla in deposito”.
Mi guidò fino ad un varco dalla parte opposta. Ritrovava la via della gioventù quasi senza esitazioni.
Al porto vecchio c’erano i gabbiani, volavano bassi, ci sembrava di poterli afferrare. Bestie gigantesche, pesanti. Trovavano lift sulle pareti del molo, sopra ai frangiflutti; ogni minimo ostacolo che obbligasse il vento a deviare verso l’alto sosteneva il loro volo.
C’erano barche da pesca antiche, diverse dai nostri trabaccoli ma alcune ugualmente avevano gli occhi.
Al museo le spighe di Van Gogh di giorno e di notte ci tolsero il fiato, con quelle lune straordinarie e i blu scuri striati che facevano da sfondo alle onde del grano, gialle di luce estiva.
Parlavamo poco, attoniti, stregati da quella bellezza scatenata da un sol uomo sulla tela.
Che emozioni si possono creare con mezzi poveri come quelli del pittore.
Al museo dei diamanti osservammo un artigiano lavorare. Le mani si muovevano lente attorno alle vecchie macchine, vestigia di un passato immutato. Finita la giornata, gli intagliatori se ne andarono ma gli attrezzi conservarono la magia. Sprigionavano il profumo del lavoro, lo stesso che aleggiava nella bottega di mio nonno falegname, insieme all’odore di colla e del legno. Ci piaceva, il lavoro fatto con le mani e con le macchine.
Dei diamanti non ce ne fregava niente, materia relativamente abbondante sul pianeta, resa preziosa poiché gestita da un monopolio.
Quasi all’uscita scoprimmo che a Canossa, provincia di Reggio Emilia, si trova una pietra rarissima, presente solo in pochi luoghi al mondo. Viene da chiedersi perché non sia quella lì la pietra preziosa.
Fuori c’era ancora sole e sedemmo in un piccolo parco ad uno dei tanti gazebo, mamme coi bambini, ragazzi con le morose, qualche impiegato di passaggio con la borsa e la giacca scura, le biciclette appoggiate agli alberi.
Ad Amsterdam i palazzi della città vecchia sono quelli del dominio di un impero ma gli spazi sono parchi, tipici di chi ha dovuto prima rubare la terra al mare, gettando le fondamenta nella palude.
Ci dicevamo queste cose, Lino ed io. I nostri sogni da adulti volavano bassi ma li avevamo eccome, alcuni espressi con pudore per timore che la bolla di sapone si infrangesse.
Cristian mi ha regalato un’immagine dove Lino ed io siamo appoggiati alla balaustra di un ponte. Io sono chinato verso l’acqua che scorre e Lino guarda lontano, con quel suo sguardo che attraversa le cose e non si ferma mai.
Quando si è ammalato ed è tornato nella sua Senigallia per curarsi, non riuscivo a parlargli al telefono, temevo di scoppiare a piangere. C’era chi tra di noi aveva imparato dalle sue magistrali lezioni di vita e continuava a scherzare insieme a lui. Ridevano senza ritegno anche della morte per scongiurarne la presenza. Mi raccomando ragazzi, nella cassa gli altoparlanti li voglio girati verso l’interno.
Io a scherzare non ci riuscivo, perché della stessa malattia era morto Frank mentre gli tenevo la mano e ogni giorno era dominato dal magone.
Lino se ne è andato in punta di piedi. Venerdì si era fermato da lui Luca mentre da Parma tornava a casa, Sabato Lino aveva parlato al telefono con Giammario e gli aveva detto che stava andando all’ospedale per uno strano mal di stomaco. Non ha superato la Domenica, rapito da una banale setticemia. Inaspettato fulmine, mentre la sua malattia stava migliorando e si profilava ormai l’operazione.
Neanche un mese prima eravamo scesi in massa a Senigallia e Lino e Carla ci avevano portati da Uliassi. Fu un pranzo memorabile, avevamo il tavolo migliore, il tempo era splendido, la brezza leggera, il profumo del mare si miscelava a quello dei piatti.
Bevemmo e mangiammo, ridevamo di gusto e ci dimenticammo del mondo, come Lino ci aveva insegnato a fare.
Fece per noi il segnaposto, una barchetta di metallo con il suo nome sotto, Zio Lino. Sull’albero la bandiera della ditta.
Sono passati un’estate e un inverno ed io non sono stato capace di scrivere due righe su di lui. Non ci riesco.
Non ho più scritto articoli per nessuna rivista.
Quando da Parma stavamo partendo per andare al funerale, lo giuro, mi sono guardato intorno per cercare Lino. Ma come, stiamo andando tutti insieme a una cosa importante e lui non c’è?
Hai portato da noi saggezza, il garbo di un gentiluomo, il riso contagioso di un ragazzo.
Attorno a te ci riunivamo per la cena, noi scappati di casa. Eri il nostro caminetto. Ti voleva bene il personale delle trattorie, tutto ormai di amici. Portavi serenità e ci stimolavi ad aprire spiragli alla gioia, per quanto dura potesse essere la realtà.
Ci aiutavi ad essere equilibrati. A tornare ragazzi. Eri tu a farci staccare la spina dopo lunghe giornate. Si rimaneva insieme ma in un altro mondo.
Non riesco a parlare di te se non per frasi smozzicate, perdonami.
Quando a scuola feci un tema sull’amicizia mi sembrava di aver scritto da dieci ma presi cinque.
Non te ne andrai mai via, questo lo so. Rimarrai nelle cose e nel tempo come solo la magia di un uomo, più forte delle mura di una città, sa fare.
Mi viene in mente quel tuo divertente racconto, quando eri in CIARE e vedevi quel gabbiano volare diritto contro la vetrata del tuo ufficio, fino a che ci si piantò contro. All’AES abbiamo parlato di te. Quanto hai insegnato e che segni hai lasciato nei giovani!
Ieri sera ho visto volare i gabbiani.
A cena c’era un professore di Senigallia, come te, emigrato a Roma. C’era Fabio, che tu tenesti a battesimo nei suoi primi passi e che ti adora. C’erano quelli di AP, come ad Amsterdam.
In quei gabbiani di luce ci sei tu.
Vola alto amico mio, amico nostro.
Una sola cosa mi sento di dire a chi legge:
fate quello che volete nella vita ma non fumate.
Non fumate.