Ken Billington – Lighting designer

In occasione di una sua visita presso il costruttore Clay Paky, abbiamo avuto il privilegio di partecipare ad una tavola rotonda e fare delle domande a Ken Billington, una delle più importanti figure del lighting design teatrale di Broadway. Nonostante non si sia trattato propriamente di un’intervista, ci è sembrato molto interessante condividere la sua narrazione e riferirvi alcuni dei suoi racconti e delle battute salienti

di Douglas Cole

IMG 5870Ken Billington è uno dei nomi più importanti nel lighting design mondiale. È un'affermazione impegnativa, questa, lo sappiamo, ma non rappresenta solo un’opinione della redazione o un’iperbole disinvolta. Attivo come lighting designer nei teatri di New York dal 1969, Billington è stato assistente all’indiscussa “Regina dei lighting designer americani”, Tharon Musser, ed è considerato da tanti colleghi il suo legittimo erede.

Nato nel ‘46 a White Plains, nello stato di New York, figlio di un rivenditore di automobili, Billington ha scoperto e scelto il proprio mestiere molto presto: “All’età di nove anni — racconta — per la recita scolastica mi diedero il compito di alzare le luci per iniziare lo spettacolo: mi rimase impresso l’applauso scoppiato appena ebbi azionato l’interruttore, e mi piacque l’idea che se io non avessi fatto il mio lavoro, l’applauso non sarebbe partito.
“Nella mia scuola superiore, in seguito, c’era un teatro vero e proprio, con dei rack di dimmer, ed io feci in modo di occuparmi sempre delle luci. Nel frattempo entrai a fare parte della compagnia teatrale amatoriale del comune. Il regista della prima produzione per la quale curai le luci era un signore che si chiamava Phillip Mathias, che era stato direttore di palco per Rogers e Hammerstein, nonché il direttore di palco originale per South Pacific, The Skin of Our Teeth e tantissime produzioni storiche... insomma, un vero direttore di palco di Broadway, tra l’altro sposato con Alice Hammerstein, la figlia di Oscar. Dopo la scomparsa del suocero (e forse anche a causa di questa evenienza), Phillip si era ritirato dal lavoro a Broadway e lui e Alice si erano trasferiti in provincia, continuando a collaborare con il teatro locale più per passione che per altro.
“Io avevo 14 o 15 anni – continua Billington – ma poiché fin allora Phillip aveva lavorato solo a Broadway con i lighting designer più famosi – Jo Mielziner ed altri – probabilmente pensava che io fossi uno di loro! Infatti mi trattò come se io sapessi davvero quello che facevo, ascoltando perfino le mie idee. Quell’esperienza fu entusiasmante. Così quando finì la scuola superiore volevo continuare studiando teatro, ma non riuscii ad entrare in alcuna università.
“Trovai un corso di disegno luci a New York – prosegue – nello studio di Lester Polakov, in cui insegnavano dei grandi lighting designer, e passai molto tempo nei teatri ad osservare il loro metodo di lavoro. Una tra questi era Tharon Musser: dopo averla potuta osservare nella produzione di un paio di spettacoli, le scrissi una lettera in cui chiedevo di lavorare per lei. Avevo forse 19 anni e, chiaramente, non avevo alcuna qualifica per essere un suo assistente, ma mi assunse lo stesso.
“La prima produzione alla quale lavorai fu all’American Shakespeare Festival, con cinque diverse recite sul palco. In quel periodo Tharon perse il suo assistente a tempo pieno, così io cominciai a lavorare su tutte le sue produzioni a Broadway. Quindi professionalmente mi sono proprio formato nei teatri di Broadway, iniziando a lavorare come assistente al LD a 19 anni, fino a 22 anni. Tharon infatti, che era molto intelligente, mi mandò via dopo tre anni, dicendo che ‘dovevo andare a fare la mia carriera’. Per quanto riguardava il nostro rapporto, avrei potuto rimanere come assistente o associato fin quando avessi voluto, ma Tharon preferiva che andassi a vivere la mia vita.
“Aveva anche ragione – continua Billington – ma i primi periodi non furono facili. Durante il primo anno non trovai lavoro come LD da nessuna parte: tutti mi conoscevano come assistente e non come designer, così avere il primo lavoro fu veramente difficile. Per sopravvivere dovetti trovare lavoro come proiezionista in un cinema, mentre continuavo a fare lavoretti di illuminazione nei piccoli teatri. Ad un certo punto, Tharon diede il mio nome per uno show off-Broadway per il quale realizzai il disegno luci che fu accolto molto bene. Quando la stessa compagnia teatrale portò poi una produzione a Broadway, i produttori chiesero a Tharon di progettare le luci: disse loro che non era disponibile e che sapevano già dove trovare un LD. Feci quella produzione nel ‘74, The Visit, di Dürrenmatt, con la regia di Harold Prince, per la quale fui nominato per un Tony Award come miglior disegno luci. Da allora non sono mai più stato senza lavoro. Inoltre, ogni assistente che assumo, a parte le persone che si occupano di cose specifiche nel mio studio, viene cacciato fuori dal nido dopo un anno”.

Il resto, come si dice, è storia. Billington rimane attivissimo nel settore teatrale, progettando le luci anche per tre o quattro produzioni di Broadway in un anno, ed impegnandosi inoltre nel campo dell’illuminazione architetturale, dei grandi eventi e delle attrazioni. Sicuramente è tra i LD più prolifici.
A Broadway ha lavorato ad un centinaio di spettacoli, tra cui Chicago, il musical americano con la più lunga programmazione residente della storia, attualmente replicato in oltre venti paesi e ancora oggi in scena con le luci originali; ma anche il pluripremiato musical Sweeny Todd. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti, è stato nominato otto volte per i prestigiosi Tony Award, aggiudicandosi vincitore per Chicago.
Billington ha inoltre occupato il posto di lighting designer residente al Radio City Music Hall di New York dal 1979 al 2004, progettando le luci per i rinomati spettacoli natalizi e pasquali, oltre ad innumerevoli altri eventi residenti.
Al di fuori di Broadway, ha firmato l’illuminazione di oltre 300 produzioni teatrali, a cui sono da aggiungere più di 200 produzioni tra lirica, balletto, concerti, show per Las Vegas e spettacoli in arena, con una lista di nomi associati che include Liza Minelli, Pia Zadora, Hugh Jackman, Lily Tomlin, il New York City Opera, il National Ballet of Canada, le Rockettes e tantissimi altri.
I suoi lavori in altri settori includono il progetto originale dello spettacolo Fantasmic per Disneyland in California, molti spettacoli per Seaworld e una trentina di altri spettacoli nei parchi tematici, oltre ad innumerevoli eventi commerciali e congressuali e più di sessanta allestimenti architetturali, come l’illuminazione dello storico ristorante ‘Tavern on the Green’ a New York.

Ecco come ha risposto ad alcune delle domande che gli sono state poste.

Quali sono i punti concettuali del disegno luci che lei ritiene fondamentali?

“Il primo cardine è che non sono io il protagonista dello show, ma quelli che sono incaricato di illuminare: l’Ego deve prendersi una pausa.
“Nel teatro, l’obiettivo delle luci è di dare supporto alla visione del regista. Per quanto possa io avere una visione artistica, la persona che è stata assunta per fare la regia è la persona che riceverà tutta la colpa o tutte le lodi dello show. Se lo show è bello, la gloria andrà al regista; se lo show è terribile, daranno colpa al regista. Perciò anche se io vengo assunto e pagato dal produttore, io lavoro per il regista e devo ascoltare il regista. Posso non essere d’accordo con lui e si può discutere, ma alla fine ha ragione lui (o lei). Il mio lavoro è di dare supporto allo show e alla visione del regista: se alla fine le luci vengono bene, è un bonus.
“L’altra cosa cruciale, e che spesso i LD giovani dimenticano, è che si deve avere un concetto dello show; ci si deve chiedere quale sia il mio concetto dello show. Il regista ha il suo concetto, ma io devo avere il mio e devo far combaciare il suo con il mio. Se io non so perché sono lì, niente sarà ben fatto. Posso sempre creare delle belle scene… ma sono la cosa giusta per quello spettacolo? Occorre avere una visione panoramica della produzione per poterci lavorare in modo efficace”.

Rimandando al tema più centrale della nostra rivista, abbiamo chiesto a Billington del suo rapporto con la tecnologia che si è evoluta incredibilmente durante la sua lunga carriera.

“Quando cominciai a lavorare a Broadway, tutto si basava sui Leko, i PAR e il controllo manuale, ma io ho sempre abbracciato la tecnologia con entusiasmo. La prima console con memoria usata a Broadway fu per A Chorus Line. La seconda, che era la prima console di serie costruita da Strand, fu usata per una produzione per la quale feci il disegno, Side by Side by Sondheim, e fui il primo ad usarla. I proiettori motorizzati, disponibili solo dal 1980, li usai già per qualche produzione nel 1981 e fui io il primo a portarli in una produzione di Broadway nel 1983 o ‘84.
“Le console di ETC, Obsession ed Eos, furono create proprio per me, secondo le mie richieste. Il primo esemplare di Obsession mi fu portato, credo nel 1990, a San Bernardino, in California, mentre facevamo l’allestimento per Annie II – non avete mai sentito nominare questo show perché fu un totale flop: i sequel funzionano nel cinema, non nel teatro. Comunque, c’era una cosa radicalmente nuova in questa console per l’epoca: un modem con un connettore telefonico che ci permetteva di collegare la console alla linea telefonica del teatro. Quando trovavamo un bug, chiamavamo ETC ed i loro tecnici si mettevano subito ad aggiornare il software. Ogni giorno, durante la pausa cena, la console chiamava e scaricava tramite modem il nuovo software. Nel 1992 sembrava pura fantascienza.
“Eos, invece, è in buona parte il risultato di una mia richiesta per una console dedicata alle luci motorizzate in teatro. Ci fu una riunione proprio su questo il 9 settembre del 2001: quando portarono la prima versione non funzionava, e tutto il progetto fu quasi abbandonato: ci misero un altro anno per farla funzionare in maniera soddisfacente.
“Due anni dopo una conversazione nella quale avevo spiegato una serie di esigenze per un sagomatore, Dave Cunningham mi chiamò e mi invitò in California per guardare il Source Four. Così il disegno originale di Chicago fu la prima produzione fatta completamente con i Source Four. Quando successivamente gli suggerii che serviva un PAR, mi disse che non si poteva fare, perché non sarebbe mai stato competitivo. Gli dissi: ‘Nessuno sa di averne bisogno, finché non lo costruisci’. So che nel mondo del 230 V, il Source Four PAR non è molto efficiente, ma nel mondo del 117 V è più efficiente ed efficace di un PAR64, tanto che nei teatri ha completamente soppiantato questa categoria di prodotto”.

“Insomma, sì, io voglio sempre nuova tecnologia. L’importante è che chi la produce sia però disponibile al 100% come supporto tecnico: devo poterlo chiamare venerdì sera alle 19.00 e poter contare su una soluzione che arrivi entro sabato, meglio se venerdì entro le 22.00!”.

 

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