Il colore della luce - Seconda parte
Dal CRI Ra al CRI Re.
di Michele Viola
Nella prima parte di questa rubrica è stato introdotto il concetto di temperatura di colore, che è correlato al ‘colore’ della luce emessa da una sorgente idealmente bianca confrontando tale colore con il colore di un oggetto incandescente. All’aumentare della temperatura dell’oggetto, la luce emessa vira dal rosso, al giallo, al bianco tendente all’azzurro.
Abbiamo visto come la temperatura di colore di una sorgente bianca, seppure rappresenti un parametro descrittivo fondamentale, non sia sufficiente per caratterizzare la qualità della luce emessa da una particolare sorgente luminosa.
La Commissione Internazionale per l’Illuminazione, comunemente abbreviata con l’acronimo CIE (dal suo nome in francese: “Commission Internationale de l’Éclairage”), alla quale abbiamo accennato la volta scorsa, ha proposto un metodo per specificare, in maniera quantitativa, tramite un indice numerico detto CRI (dalle iniziali in inglese: Color Rendering Index, in italiano indice di resa cromatica), la capacità di una sorgente luminosa (artificiale e nominalmente bianca) di rivelare fedelmente il colore degli oggetti illuminati rispetto ad un’illuminazione naturale, o comunque ad una sorgente luminosa di riferimento. Si tratta in definitiva di un punteggio, un numero (senza unità di misura) che può assumere valori da 0 a 100. Una sorgente luminosa con un CRI pari a 100 è teoricamente ‘perfetta’ dal punto di vista della resa cromatica, nel senso che si comporta esattamente come la luce del giorno standard, o come un corpo nero incandescente (cioè come una lampada ad incandescenza). Il valore dell’indice CRI può anche scendere a valori addirittura negativi, per delle sorgenti luminose ‘pessime’ dal punto di vista della resa cromatica come, ad esempio, alcuni tipi di lampade al sodio utilizzate per l’illuminazione stradale. L’utilizzo di sorgenti luminose con un CRI elevato (vicino a 100) è senz’altro auspicabile in applicazioni critiche dal punto di vista dell’analisi del colore come, ad esempio, il restauro artistico o l’assistenza neonatale ospedaliera, o anche per la ripresa cinematografica o televisiva. Ma la resa corretta dei colori può essere un fattore critico anche in situazioni più prosaiche quali, per dire, una macelleria o un negozio di abbigliamento.
Una valutazione quantitativa della qualità della resa cromatica è ovviamente complicata dal fatto che, come abbiamo già scritto nello scorso numero, il colore non è un fatto puramente fisico ma è piuttosto una percezione, ovvero non esiste se non nell’interpretazione di chi osserva. Se molti animali riescono ad interpretare come colore radiazioni anche ben al di fuori dello spettro della luce visibile per l’uomo, è ragionevole pensare che anche la sensibilità umana in riferimento alla percezione del colore possa variare anche significativamente tra un individuo e l’altro. Così come, del resto, in maniera analoga, la percezione del volume di un suono è senz’altro soggettiva – ovvero può variare in maniera significativa tra individui differenti – e, inoltre, dipende in maniera piuttosto complessa da vari parametri quali l’altezza (cioè la frequenza, o la distribuzione spettrale) ma anche, ad esempio, l’inviluppo temporale. E non vorrei addentrarmi qui, ad esempio, in questioni riguardanti il rapporto tra percezione qualitativa e gradimento artistico.
A scanso di equivoci, vale forse la pena ribadire che l’indice di resa cromatica CRI di una sorgente luminosa non indica il colore apparente della luce emessa da tale sorgente – questa è invece la temperatura di colore – anche se CRI è comunque correlato alla distribuzione spettrale dell’energia luminosa. Una lampada ad incandescenza presenta uno spettro luminoso sostanzialmente continuo, mentre una lampada fluorescente presenta tipicamente uno spettro di emissione a righe; si può affermare che, proprio a causa di tale differenza, le lampade ad incandescenza presentano un valore di CRI generalmente più elevato rispetto alle lampade fluorescenti.
Essendo il risultato di un calcolo deterministico che non può necessariamente tenere conto di tutti gli innumerevoli fattori di influenza, CRI non è purtroppo un indicatore perfetto in tutti i casi. In altri termini, non è detto che una sorgente con un CRI più elevato sia migliore in ogni circostanza. Anche per questo, cioè allo scopo di raffinare l’indice di valutazione perché questo possa fornire indicazioni sempre più utilizzabili in un ampio range di applicazioni, il metodo proposto da CIE è tuttora in evoluzione, anche grazie al lavoro di altri enti ed associazioni.
Il valore solitamente riportato come CRI si riferisce in genere allo standard internazionale proposto da CIE chiamato, più propriamente, CRI Ra. Questo è, almeno per ora, il metodo più utilizzato per caratterizzare le sorgenti artificiali, ed è questo che in genere si trova nelle specifiche delle lampade.
La distribuzione spettrale
dell’energia luminosa
degli otto colori test
(TCS) utilizzati per
calcolare l’indice CIE Ra.
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Come si misura
Misurare l’indice di resa cromatica CRI di una sorgente luminosa significa quindi valutare quanto i colori degli oggetti illuminati dalla sorgente in esame sono differenti dai colori degli stessi oggetti illuminati da una sorgente luminosa di riferimento. Tale differenza andrebbe possibilmente valutata in termini percettivi, ovvero dovrebbe essere correlata alla differenza di colore percepita (dall’occhio umano).
Occorre quindi, prima di tutto, scegliere una sorgente di riferimento. Il metodo standard prevede che, data una sorgente da caratterizzare, venga utilizzata come riferimento una sorgente ‘naturale’ con la stessa temperatura di colore. Occorre quindi misurare la temperatura di colore della sorgente sotto test: se tale temperatura è inferiore a 5000 K allora la sorgente di riferimento sarà un corpo nero incandescente alla stessa temperatura (ovvero, in pratica, una lampada alogena), se invece la temperatura di colore della sorgente in esame è superiore a 5000 K allora si sceglie come sorgente di riferimento la luce diurna standard (cioè la sorgente luminosa standard CIE serie D) alla stessa temperatura.
Perché la misura abbia senso, ovviamente, occorre che la sorgente sotto test e la sorgente di riferimento non siano eccessivamente diverse dal punto di vista colorimetrico. Ad esempio, banalmente, è perfettamente possibile misurare (o calcolare) la temperatura di colore di una lampada verde, che potrebbe risultare diciamo intorno ai 7000 K, ma questa sarebbe ovviamente significativamente diversa, dal punto di vista della resa colore ma non solo, dalla luce diurna standard a 7000 K che è sostanzialmente bianca.
A questo punto, occorre scegliere i colori degli oggetti da illuminare. Il gruppo di colori standard inizialmente specificati da CIE si chiama TCS, acronimo per Test Color Standard, e comprende otto tinte standard denominate da TCS 1 a TCS 8 definite in termini di spettro di riflettanza. Questo è il gruppo di colori utilizzati per il calcolo dell’indice CRI Ra.
Ora occorre illuminare gli otto cartoncini colorati con la sorgente in esame e campionarne la luce riflessa, come percepita dall’osservatore standard, in termini di coordinate (u,v) nello spazio colore CIE 1964. In teoria bisognerebbe fare lo stesso con la sorgente luminosa di riferimento, ma in pratica la luce riflessa da tali sorgenti standard per ciascuna delle tinte standard è già stata misurata e tabulata da tempo, e i relativi valori sono già noti senza dover ripetere ogni volta la misura. In realtà, una volta campionata tramite misura la distribuzione spettrale dell’energia luminosa emessa dalla sorgente sotto test, anche la luce riflessa dagli otto cartellini colorati TCS si può ricavare tramite un calcolo, quindi il procedimento di misura diventa poi virtuale.
Per ciascun colore da TCS 1 a TCS 8 si calcola quindi la distanza tra i valori misurati per la sorgente in esame e i valori relativi alla sorgente di riferimento, dopo aver applicato una procedura (la trasformazione di Von Kries) che rende conto dell’adattamento cromatico percettivo, che è quel fenomeno per cui siamo in grado di distinguere i colori in maniera coerente anche se cambiano le condizioni di illuminazione. In questo modo la differenza ∆Ei nella resa del colore, valutata da sensori e strumenti, è ben correlata alla differenza percepita da un osservatore umano. Per ciascun colore si calcola poi un valore R, da R1 a R8, semplicemente sottraendo da 100 un valore proporzionale a ∆Ei, ovvero Ri = 100 – 4,6 × ∆Ei. Il valore complessivo di CRI Ra si ottiene poi dalla media aritmetica degli otto valori Ri da R1 a R8.
Nome e rappresentazione
dei quindici colori di
riferimento (TCS) per il
calcolo dei coefficienti
R e dell’indice CRI.
CRI Extended
Oltre alle otto tinte da TCS 1 a TCS 8, ne sono state successivamente definite altre sette, codificate di seguito con le sigle da TCS 9 a TCS 15, con dei colori più saturi o di particolare interesse per alcune applicazioni. Queste sette tinte aggiuntive non vengono utilizzate per il calcolo di CRI Ra, ma i relativi singoli indici Ri possono essere interessanti per chi, appunto, necessita di valutare una sorgente in un ambito applicativo specifico. R9, ad esempio, è un rosso pieno, ed è evidente che una buona resa nel rosso sia fondamentale in vari ambiti, ad esempio quando occorra rendere fedelmente gli incarnati.
Si definisce anche un indice CRI esteso, spesso indicato con CRI Re (dove la e evidentemente sta per ‘extended’, mentre la a in Ra sta per ‘average’), che utilizza 14 tinte standard (senza la quindicesima, che resta disponibile per le valutazioni sul singolo colore tramite l’indice R15). Come si può notare osservando la serie di colori TCS, l’indice CRI esteso tiene maggiormente conto della resa cromatica sui colori pieni, dove l’indice CRI Ra è invece un po’ carente.
Quando nelle specifiche di una sorgente luminosa è riportata una misura di CRI, questo in genere si riferisce a CRI Ra. A volte viene aggiunto qualche indice, ad esempio: CRI = 95, R9 > 90. Se la specifica si riferisce a CRI esteso, questo è in genere chiaramente indicato.