Chiacchiere con i DJ
Nel nostro excursus sul mondo delle discoteche non poteva mancare il punto di vista di questi artisti della notte. Ne abbiamo interpellati alcuni fra i più quotati.
DJ Baldelli
Cominciamo da un personaggio che ha vissuto dall’interno, e intensamente, tutta l’evoluzione di questo affascinante benché controverso ambiente. Parliamo di Daniele Baldelli, uno dei più longevi DJ italiani.
Come nasce DJ Baldelli?
Nel 1969 ero un ragazzino che, come molti di quell’età, aveva scoperto un nuovo modo di passare le serate in compagnia: avevo cominciato a frequentare un club di Cattolica, il Tana, locale da ballo dove, invece dell’orchestra, si ballava con i dischi. All’epoca, lo spazio di colui che metteva i dischi (ancora non si chiamava DJ!) era ricavato alla fine del bancone del bar e non esistevano i mixer, i pre-ascolti, le cuffie, ecc: al termine della canzone si abbassava il volume del disco e si alzava quello del successivo ed io, in veste di cliente, occupavo un posto fisso alla fine del bancone per guardare meglio quel che faceva il “cambiadischi”, mentre del resto mi interessava poco. Una sera, ad un certo punto, il gestore del locale si avvicina e mi propone di occupare proprio quella postazione. Per me fu come aver fatto tredici alla schedina: era il mio sogno. La sera dopo arrivai al locale di buon ora per prendere le consegne: ricordo che i dischi 45 giri erano divisi per file e già messi in ordine; io potevo iniziare dalla fila che volevo, l’importante era che rispettassi l’ordine dei dischi scelto in base alla regola dei “tre lenti e tre shake”. Dopo appena sei mesi al Tana, fui contattato dal Tabù, nuova discoteca emergente sempre a Cattolica. Nel frattempo aveva aperto la Baia degli Angeli, il locale delle mille e una notte. E alla Baia ci andavo, come molti altri ragazzi che lavoravano negli hotel, nei bar, ristoranti o nei club, dopo il lavoro fino alle sei del mattino... finché un bel giorno non ci finii a mettere dischi. Dopo una stagione alla Baia (1977/1978), la grande svolta avvenne per me al Cosmic, celebre locale sul Lago di Garda un po’ anomalo per l’epoca: grande pista da cinquecento persone con il pavimento a mattonelle luminose, poche sedute e la console che era un casco spaziale sostenuto da due mani come nella copertina di Thanks God it’s Friday. Erano gli anni ’80 e, un po’ per il periodo, un po’ perché il locale si chiamava Cosmic, mi venne in mente di creare una sigla realizzata con effetti elettronici che facesse da richiamo per il pubblico verso il dancefloor e, per realizzarla, selezionai da una serie di dischi alcuni effetti musicali particolari, facendone poi il montaggio in sequenza tagliando e cucendo il nastro con un Revox. Fu un successo, la clientela si accingeva a ballare ancor prima di conoscere il primo brano in scaletta. Ed è sempre al Cosmic che sperimento per la prima volta il mixaggio dei più disparati generi di musica – dal funky all’elettronica, passando per il rock, la fusion, il reggae – e, a tal proposito, ricordo che in quel periodo mi comprai la prima batteria elettronica, una Korg somigliante ad una macchina da scrivere che aveva dei ritmi già pre-impostati, e con questa facevo partire dei pattern di batteria su cui poi andavo a suonare. Parlarne oggi fa sorridere, perché sono cose che ora si riescono a fare anche con un telefonino, ma ai tempi si trattò di una vera innovazione.
Da allora com’è cambiata la musica dei locali da ballo?
Mentre una volta questa veniva suonata dai musicisti, e anche il pezzo commerciale aveva dietro la firma di un grande arrangiatore, ora la tecnologia dà l’opportunità un po’ a tutti di potersi cimentare nella composizione musicale. Superfluo aggiungere che ciò ha comportato un’enorme quantità di produzioni a discapito della qualità e il fatto che ad emergere non è necessariamente il più bravo, ma chi si differenzia per vari motivi non strettamente legati alla musica.
A questo discorso è legato anche quello della gestione delle discoteche. Ad un certo punto, alla fine degli anni Ottanta, tanti imprenditori, facoltosi e non, si sono interessati al business della discoteca e hanno cominciato ad investire e ad aprirne tante. Trattandosi di imprenditori abituati a fare i conti con i numeri ed il profitto, è facile immaginare che la qualità della musica passasse in secondo o terzo piano rispetto ad altri aspetti meno artistici della gestione. Poi passa il tempo, cambiano le mode e i modi di divertirsi e la discoteca ne risente. Fortunatamente, dando un’occhiata ai DJ e ai locali della vecchia guardia sopravissuti al cambio generazionale, possiamo affermare che la selezione ha risparmiato quelli che si sono legati a questo mondo per passione e non solo per denaro.
Esistono DJ cambiadischi e DJ produttori della propria musica; tu come ti poni?
È chiaro che un DJ mixa anche brani non suoi, e i 60.000 mila dischi in vinile che possiedo ti danno un’idea dell’ampiezza di generi da cui attingo. Ma, oltre a questo, da più di dieci anni entro anche in sala di registrazione e produco musica mia. Durante le mie serate può succedere di tutto: che metta musica appena acquistata, che interagisca con dei musicisti che suonano dal vivo o che proponga musica prodotta da me, o un mix delle varie situazioni. Premetto che non sono un musicista e, non conoscendo la musica, mi affido ad un mio istinto e gusto musicale che mi sono creato in quarant’anni di carriera. Io ascolto di tutto: dalla classica al rock, dal jazz all’elettronica sperimentale... quando nella musica trovo qualcosa che mi coinvolge, la faccio mia lavorandoci sopra. In studio entro con le mie idee che poi trasmetto ai musicisti: il mio album Back to my funky side, tutto funky, ad esempio, l’ho scritto suggerendo in studio le melodie ai vari musicisti.
Parlando un po’ della parte tecnica, che situazioni trovi girando le varie discoteche?
Di tutto, dall’impianto di un marchio sconosciuto al bell’impianto montato da professionisti. Ricordo che, quando lavoravo al Cosmic, la gente impazziva per l’impianto: tutto McIntosh, con casse JBL, insomma c’era della gran qualità. Poi, quando è nata la musica house, c’è stato uno sviluppo notevole delle tecnologie a supporto di tutti questi nuovi suoni compressi, ma la maggior parte dei gestori con cui ho avuto a che fare considerava molto più importante la firma dell’architetto ed il divano bello piuttosto che l’impianto buono. Oggi, fortunatamente, tale tendenza sta cambiando; lentamente, ma sta cambiando.
Mentre la console come si è evoluta?
Come ti raccontavo all’inizio della chiacchierata, ho iniziato lavorando sul volume di un amplificatore; poi la prima svolta è arrivata quando un tecnico di Cattolica ci ha portato un pannellino con due slider, dicendomi che erano i due volumi verticali dei due giradischi e che potevo, dissolvendo, incrociare l’uno con l’altro. Fu la prima rivoluzione; poi sono arrivati la cuffia, il preascolto, i monitor e via dicendo. Ricordo con un po’ di nostalgia il primo Lenco: avendo come cambio di velocità una puleggia a cono, solo muovendo leggermente l’asticella del cambio di velocità cambiavano i giri, in questo modo si riuscivano a mettere a tempo i vari dischi. Da lì, poi, si è evoluto tutto molto velocemente fino a oggi, l’era dei banchi digitali dalle mille funzioni. Per quanto riguarda l’impianto audio, invece, ho iniziato al Tana con un impianto formato da quattro casse, per l’epoca un grande impianto: se qualche gruppetto nel locale, ballando, cantava a voce alta, copriva la musica... mentre oggi gli impianti nelle discoteche, se non superano abbondantemente i 100 dB SPL, non vanno bene.
A che età un DJ deve appendere le cuffie al chiodo?
Non esiste un’età, lo fai finché te la senti e non diventa un lavoro pesante. Però ti posso rispondere così: pochi mesi fa ho fatto una serata assieme a Giorgio Moroder: lui ha 74 anni e fa ancora serate divertendosi, quindi posso sperare di continuare per altri dieci anni almeno.
DJ Ralf
Altro DJ di sicuro interesse è DJ Ralf
Chi è DJ Ralf?
Partiamo dal principio: ho iniziato a guadagnare qualcosina con questo mestiere nell’82, ma già dal ’74 lavoravo in una radio privata della mia zona. Io sono di Bastia Umbra, provincia di Perugia; già molto giovane sono andato ad abitare in una comune, poi ho studiato Belle Arti a Perugia ma non ho portato a termine gli studi perché sono stato chiamato a fare il militare. In quel momento ero totalmente appassionato di musica, a Perugia c’era un club in cui un amico mi ha proposto di mettere la musica e da lì ho cominciato.
Ci tengo a precisare che appartengo alla generazione cresciuta in un piccolo paese di provincia in cui la musica era una fidanzata, una mamma e una valvola di sfogo, per cui lavorare con la musica era un sogno che partiva da quando ero piccolo, anche se al tempo non esisteva ancora la figura del DJ. Nel ’91 ho prodotto il mio primo disco e nel 2006 ho fondato una mia etichetta: LATERRA recordings. Ma di dischi ne ho fatti pochi perché non sento molto miei i panni del produttore, preferisco di gran lunga esprimermi in console, dove do il meglio di me come artista. I DJ di adesso sono quasi tutti produttori, ma per me rimangono due mestieri diversi, perché un bravo DJ, oltre a conoscere la musica, deve anche avere il giusto appeal sulla gente e quell’intuito che ti permette di capire quando è il momento di osare con i brani e quando, invece, è meglio rimanere “sul pezzo”.
Puoi dire di aver vissuto in prima persona la nascita e il periodo d’ascesa delle discoteche?
Gli anni erano quelli, ma non ho mai vissuto la discoteca “classica”; quelle in cui si suonava Den Harrow non mi piacevano. Io vengo dal rock per cui ho cominciato a frequentare i club quando sono venute fuori le discoteche di tendenza New Wave (il Velvet di Rimini, l’Aleph di Gabicce Mare, a Perugia il Suburbia…) e anche i miei primi dj set erano un mix di The Cure, Bauhaus, e ogni tanto ci infilavo un pezzo di James Brown, un pezzo rap… ero molto eclettico. Poi, ad un certo punto, mi sono avvicinato alla scena del mixaggio e, benché non fossi un campione, avevo una buona scelta musicale che mi permise di impormi sulla nascente scena house.
Dal tuo punto di vista quale evoluzione ha avuto la discoteca dagli anni ’80 ad oggi?
Prima c’era tutto un mondo che andava nelle discoteche ad ascoltare e ballare le hit, e qui la figura del DJ era accostabile a quella di un barista: doveva fare il suo lavoro seguendo le esigenze del locale. Poi, con il tempo, è maturata la figura del DJ come propositore di musica innovativa e di forme sonore rivoluzionarie e, a parte poche eccezioni di chi si spostava per andare a sentire un determinato DJ e non per andare a ballare in quel particolare locale, si è sviluppato il fenomeno dei DJ guest, quelli che girano per proporre la propria musica. Questo, come effetto collaterale, ha sminuito un po’ la figura del DJ resident, che negli ultimi anni è stato confinato nel ruolo di apripista in attesa del guest. Ma sotto questo punto di vista io sono speranzoso per il futuro: prevedo un ritorno in auge della figura del resident, anzi alcuni locali si stanno già muovendo in questa direzione, primo tra tutti il Cocoricò di Riccione. Sono convinto che ogni club abbia bisogno di un DJ che tracci la sua personale storia musicale, che magari di anno in anno ripropone quella canzone a cui i clienti hanno legato un ricordo particolare, mentre ciò che fa un DJ ospite è portare la propria musica e la propria storia.
Tu dove rintracci i maggiori “responsabili” di questo fenomeno del DJ guest? Nei gestori dei locali oppure nei DJ stessi?
Trovare responsabili non è semplice, ammesso che ce ne siano. Si tratta di una tendenza globale che ha portato i DJ a rappresentare la figura chiave attorno a cui gira tutta l’economia di un locale e, di conseguenza, a gonfiare i cachet di questi in modo incredibile. Io posso dirti come provare ad invertire tale tendenza, perché da una parte ti parlo da DJ guest, ma dall’altra mi propongo come resident nel mio club di Perugia, il Bellaciao. L’idea è stata quella di ricreare una piccola famiglia, in cui i clienti hanno il loro posto in discoteca e si respira aria di condivisione e appartenenza come succedeva una volta. Per ora sta andando molto bene. Ora, chiaramente, i gestori devono seguire il mercato, ma sbilanciandosi in maniera evidente verso la logica dell’ospite hanno anche avuto dei contraccolpi, perché per un guest di fama internazionale, oltre al cachet, devi considerare il viaggio e le spese di agenzia. A mio parere si delineeranno due strade: quella del grande evento, nel quale le produzioni potranno permettersi di spendere una certa cifra di artistico, eventi costosi ma che portano dalle 20.000 persone in su, e quella dei club medio-piccoli, che non reggeranno il gioco dei grandi nomi in cartellone ancora per molto e che quindi torneranno inevitabilmente alla cultura del DJ resident.
E nel dibattito tra DJ che fanno musica da ballare e DJ che fanno live anche da guardare, come ti schieri?
Io faccio musica da ballare, non faccio show. E anche le mie richieste sono da DJ puro: fondamentalmente due piatti, ma che siano quelli che chiedo io o comunque dignitosi, perché ci tengo ad un buon ascolto. Comunque nulla di simile ai tech rider di certi DJ che sembrano quelli dei Rolling Stones. Aggiungo, inoltre, che per me è anche impensabile l’idea di arrivare in console e suonare un’ora e mezza. Solitamente faccio DJ set da sei ore circa, il tempo che mi serve per esprimermi, perché stare alla console è come guidare un camion: non si può andare subito ai duemila, ci vuole tempo per assettarsi e scaldare i motori.
Negli anni ’90 eravamo i maggiori produttori di musica dance, mentre oggi siamo rimasti un po’ indietro...
Non credo che in Italia manchino né il talento né il fermento, penso piuttosto che sia il mercato italiano ad essere rimasto indietro: non ha saputo sviluppare un tessuto di etichette indipendenti abbastanza forte da avere un peso o da poter valorizzare a livello internazionale i talenti che abbiamo, per cui spesso artisti italiani semi-sconosciuti in patria vanno fortissimo all’estero perché gestiti dalle etichette giuste, e finiscono per venire in Italia da ospiti stranieri. E il discorso vale anche per me: con la mia etichetta sono stato fermo quattro anni, ma per la distribuzione all’estero mi affido ad etichette olandesi.
Come si produce oggi la musica da discoteca? Servono ancora gli studi o bastano i mezzi casalinghi?
La maggior parte si produce con mezzi casalinghi. Ormai basta veramente poco per fare un disco: un laptop con una tastierina attaccata. Da una parte, il rendere più facile produrre musica – attraverso software sempre più intuitivi – significa democraticizzarla, e questo mi sta bene; dall’altra, la scena musicale ha subito un appiattimento spaventoso perché prima per armonizzare una scala ci voleva un musicista che faceva una cosa con le sue mani, ora basta spingere un bottone, ma si tratta di armonizzazioni standard, uguali per tutti. Nel mio studio, se uno vuole fare un’armonizzazione, chiamiamo un musicista con i suoi vent’anni di esperienza, anche per una questione etica.
Quindi, per essere produttori, bisogna per forza essere musicisti?
No, non per forza. Secondo me la combinazione ideale sarebbe tra produttore, DJ e musicista, perché il DJ ha la competenza necessaria per capire cosa serve ad eccitare un pista piena, dà gli stimoli mentali e corporei giusti; il musicista, invece, ha la capacità di mettere nero su bianco la melodia che hai in testa e sa farti l’armonizzazione che ti fa sognare – e ci tengo a sottolineare che i più bei dischi da discoteca sono stati fatti con i musicisti – ma d’altra parte è vero che ora si sono sviluppate tante nuove correnti musicali nate completamente dal digitale – basti pensare alla Minimal – e che hanno un seguito importante. Io non sono per la Minimal, perché è fatta dal “suonino” giusto messo al posto giusto e sembra pensata apposta per stimolare poco il cervello dell’ascoltatore, mentre sono per le citazioni anche azzardate, per esempio di Miles Davis, e per un pubblico stimolato in questo senso.
Per te, che importanza hanno le classifiche di DJ Mag?
Io non sono polemico nei confronti delle classifiche; credo che queste vengano effettuate tramite votazioni online, e non è un caso se ai vertici ci siano sempre i DJ più pop che fanno musica EDM e che hanno un pubblico di ventimila persone a serata, non ci trovo nulla di scandaloso in questo. Certo: quella non è la mia storia e quelle classifiche non hanno nulla a che fare con quello che faccio.
Come prepari i tuoi DJ set, ammesso che nel tuo lavoro l’improvvisazione non sia fondamentale?
Ci sono diverse scuole di pensiero: la mia è quella della totale improvvisazione. Durante la settimana ascolto tanta musica nuova, riguardo quella vecchia e mi porto via delle chiavette usb e dei dischi, ma prima di salire in console non so né come comincerò né, tanto meno, come finirò. Porto via quello che mi piace e sia i dischi sia le tracce sulle chiavette divise in parti: la prima parte più lenta, poi quella di maggiore pressione e così via.
Pensi che il mercato italiano sia pronto per i grandi festival?
Il pubblico penso sia pronto, ma a differenza del resto d’Europa abbiamo tantissime restrizioni burocratiche. All’estero questi grandi eventi sono visti come una risorsa, da noi sono visti come luoghi di perdizione per via della solita cultura cattolica molto perbenista.
Che tipo di tecnologia trovi in giro per i locali?
Spesso la dotazione tecnologica è di qualità medio-bassa. Ora i gestori si sono accorti che anche da quel punto di vista bisogna investire, una certa qualità è ormai pretesa da quasi tutti. Nel mio locale di Perugia, il Bellaciao, affitto un L-Acoustics ad ogni serata ed è la spesa maggiore che ho in assoluto. Poi c’è il Cocoricò, che ha il Funktion One, che è un signor impianto. Io sostengo, comunque, che suono e luci siano la cosa più importante per un locale; sono anche estremista in questo, perché sono convinto che, se anche si prendesse un capannone nero con un impianto audio da paura, le luci fatte bene con un LJ bravo che non automatizzi tutto ma che lavori un po’ a mano, capendo quando ci vuole quella luce per quella pausa etc., e se si progettasse l’impianto luci secondo una logica teatrale, la serata sarebbe fatta, non serve per forza il locale bello. Al Cocorircò, ad esempio, oltre ad essere bella la piramide in sé, abbiamo una signora LJ e il mix tra audio, luci e location lo rendono uno dei locali più belli d’Italia e d’Europa.
A che età è giusto che un DJ appenda le cuffie al chiodo?
Quando si accorge che va a suonare per mettere in tasca i soldi, perché se lo fa solo per quello il pubblico se ne accorge. Se invece, come me, la passione per la musica rimane, penso che si sia disposti anche a ridimensionarsi volentieri a livello di pubblico, pur di continuare a suonare anche solo per divertimento.
Il Principe Maurice
La terza intervista è con il Principe Maurice, personaggio che definire “DJ” è parecchio riduttivo. Ma la sua personalità artistica è così complessa che rimandiamo i più curiosi a cercare informazioni sul web!
Una piccola presentazione: Chi è il Principe Maurice?
Uno, nessuno, centomila. Un uomo pirandelliano dentro e dannunziano fuori. Un idealista della libertà, della dignità e dell’amore.
Da quanto tempo frequenta il mondo della notte?
Fin da bambino, quando d’estate potevo stare sveglio fino a tardi e giocare con le lucciole (gli adorabili insetti luminosi) in giardino. La magia è sempre quella.
In questi ultimi anni qual è stato il cambiamento delle mode e delle musiche che si vivono in discoteca?
Difficile descrivere il vortice delle mode. Diciamo che ora c’è più apparenza che sostanza...
Hanno ancora senso i locali da qualche centinaio di persone o saranno sempre più frequenti i grossi eventi da molte migliaia di persone?
Anche se le folle mi inebriano, amo molto i club. Credo ci sia modo di esprimere forme varie di divertimento in luoghi diversi, purché ci sia cura anche dell’aspetto tecnico oltre che artistico. La qualità del suono e il light design sono importanti quanto la parte artistica.
Il pubblico della notte chiede solo musica o anche spettacolo?
Anche spettacolo, e io sono ben felice di continuare a proporlo.
Esiste ancora un pubblico stanziale o il popolo della notte è da considerarsi migratore?
Le migrazioni sono più per gli eventi di grande portata... le disco, a parte rari casi, hanno un pubblico più stanziale. È un fenomeno legato alla crisi: i viaggi costano.
Riusciranno ad imporsi anche in Italia i grossi festival come Tomorrowland?
È difficile.
Il DJ è la vera star della serata?
Se vogliamo considerare il direttore di un’orchestra una star, allora anche il DJ può esserlo. In realtà la vera star, per me, è la musica e come viene suonata.
Come hanno potuto lievitare così i cachet dei DJ?
Potenza del marketing!
Che tipo di aggregamento chiederanno in futuro i giovani?
Spero continuino a desiderare di vedersi, toccarsi, amarsi non solo virtualmente.
Qual è lo spettacolo che propone il Principe Maurice?
Fonti autorevoli lo hanno definito “teatro notturno”.
Lavora da solo o in equipe?
Dipende dal luogo, dallo spazio e anche dal budget, naturalmente.
Varie ed eventuali?
Tra le varie metto la mia one night del venerdì “Reaction” al Plastic di Milano che mi sta dando grande soddisfazione e tra le eventuali un e-book (anche musicale) autobiografico e uno show da portare in teatro.
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