Bob McCarthy
Consulente per la progettazione e la messa a punto di sistemi audio dedicati al live ed alle installazioni a livello planetario.
Bob McCarthy, titolare di “Alignment & Design, Inc.” con sede nel Missouri, è consulente per la progettazione e la messa a punto di sistemi audio dedicati al live ed alle installazioni. Stiamo parlando di un vero “guru”. Basti pensare che tra i suoi clienti figurano nomi come Disneyland, Celine Dion, Stevie Wonder e Le Cirque Du Soleil, o sale come la Carnegie Hall di New York e l’australiana Sidney Opera House. Insomma il massimo a livello planetario.
Collaboratore di Meyer Sound da lungo tempo, Bob ha partecipato, tra l’altro, alla nascita ed all’evoluzione del sistema di misura SIM e tuttora, tra le sue attività, c’è quella di girare il mondo per formare gli utenti SIM. Recentemente è anche coinvolto, come senior design consultant, nell’innovativo progetto Meyer Sound Constellation.
McCarthy è anche autore di diversi libri dedicati al progetto ed all’ottimizzazione dei sistemi audio, tra i quali il recente “Sound Systems: Design and Optimization”, edito da Focal Press, che è stato nominato da Live Design International uno dei cinque “Top Audio Products” del 2008.
Sound&Lite è riuscita ad intervistarlo in occasione di uno dei suoi seminari, tenuto presso la sede di Grisby Music, distributore per l’Italia del marchio Meyer Sound.
Come hai conosciuto John Meyer?
Sono stato uno dei primi clienti di Meyer Sound. Ho comprato il diffusore matricolato 0007, e l’ho installato in un piccolo club (la prima installazione fissa effettuata con un impianto Meyer Sound). Ho formato quindi un rapporto con l’azienda perché sono stato uno dei primi ad utilizzare il prodotto ogni sera. Dopo qualche anno, ho cominciato a lavorare con Meyer Sound per analizzare e collaudare i prodotti. Per Meyer Sound ho anche progettato alcuni dispositivi: l’equalizzatore CP10, i sistemi SIM, un po’ di processori di segnale negli “old days”. Sono stato un dipendente di Meyer per 14 anni. Ora ho una mia azienda e lavoro con Meyer come consulente.
Hai fatto anche il fonico in tour?
Sì, ma è passato un sacco di tempo. I miei giorni in tour risalgono a vent’anni fa ed oltre. Il mio ruolo era prevalentemente quello di system engineer, ma stavo anche al mixer. In quei tempi tutti facevano tutto, non c’erano delle specializzazioni così precise come adesso.
Devo dire che quel periodo mi ha lasciato un’eccellente preparazione per il futuro, perché mi è servito per formare una buona comprensione della prospettiva dei fonici che lavorano in tournée. Nella progettazione di tutti i prodotti a cui ho collaborato, e nello sviluppo di tutti i metodi, ho cercato di mantenere il punto di vista dell’ingegnere on-the-road e non quello del tecnico di laboratorio.
Hai studiato l’acustica o l’elettronica?
Ho frequentato l’Università dell’Indiana, la più grande e riconosciuta facoltà per la musica classica negli Stati Uniti. Suonavo la chitarra, e sono entrato con l’intenzione di studiare e diventare un musicista professionista.
Dopo il primo giorno nella facoltà di musica, ovvero dopo aver incontrato dei musicisti veri ed essermi reso conto di cosa ciò significasse, ho deciso che era ora di passare al “piano B”. Volevo rimanere intorno alla musica, e mi affascinava moltissimo la tecnologia coinvolta. Ho consultato le varie facoltà di fisica, di psicologia musicale e così via, e con l’università abbiamo creato un piano di studi specializzato per me... per la formazione di un ingegnere audio. Questo era nel ’75 e non esisteva da nessuna parte un programma del genere. Ora è un programma di laurea normale all’Università dell’Indiana come in tante altre università.
Dopo gli studi ho lavorato con diversi service. Ho sempre mantenuto l’approccio scientifico, e forse è questo che mi ha attirato verso Meyer Sound: un’azienda con un approccio scientifico.
Secondo la tua esperienza, ci sono dei paesi dove i professionisti che partecipano ai tuoi seminari sono più o meno preparati?
Direi che la preparazione e l’approccio scientifico variano più con il tipo di lavoro che con la provenienza geografica. Chi lavora più nelle installazioni permanenti tende ad avere un approccio più studiato rispetto a chi lavora con impianti mobili o semipermanenti.
Una cosa che mi colpisce è che adesso tutti quelli che lavorano nell’audio, nonostante gioventù o inesperienza, vogliono avere un’istruzione, vogliono essere tecnicamente preparati. Vent’anni fa, invece, quando ho iniziato a fare educazione, era come provare ad insegnare in una scuola secondaria superiore, davanti a teenager che non danno importanza all’istruzione e non vogliono ascoltare. Le persone che frequentavano i corsi venivano mandate lì dai loro datori di lavoro ed erano molto resistenti all’istruzione. L’atteggiamento e la mentalità erano quelli di non voler introdurre la scienza nel loro mondo, era meglio continuare a vivere nella loro fantasia di rock-n-roll. Da allora, ogni anno che vado in giro a proporre corsi, workshop e seminari, vedo crescere l’atteggiamento opposto: sempre di più, vogliono capire.
L’industria dell’audio, in genere, non è fatta di gente che ha una prospettiva scientifica. È gente che arriva in quest’industria per l’amore della musica... e, beh, anche, a volte, per le droghe ed il sesso. Non sono, comunque, delle persone che hanno deciso da piccoli di interessarsi di acustica e fisica, sono delle persone che pensavano al rock-n-roll. Volevano essere ricchi e famosi e poi, come backup, si sono trovati dietro il banco. Così abbiamo una maggioranza di persone che non hanno una prospettiva scientifica. Per queste persone è molto facile credere alle “leggende”, o a cose che si possono facilmente dimostrare scientificamente errate. Per questo, ancora oggi, per una grande parte dei concerti, si effettua una misurazione da una singola posizione – quella della regia FoH – con l’idea piuttosto fantasiosa che, misurando nella posizione di mixaggio, in qualche maniera aumenterà la qualità dell’audio per tutti. Quello che cerco di fare, e di trasmettere nei miei seminari, è prendere l’esperienza di quello che sta dietro il banco (ovviamente rendendola la migliore possibile) e di portarla a tutti quelli che stanno pagando per la loro esperienza. In generale, utilizzo almeno otto microfoni per ogni lavoro che faccio, e anche quelli li sposto continuamente. La maggior parte dei lavori che faccio adesso sono installazioni, e quando faccio le misure per uno spazio utilizzo tipicamente tra 40 e 100 posizioni di misura in una sala.
Il processo è automatizzabile, o ci vorrà sempre un essere umano per effettuare le misurazioni?
Nel 1984, quando iniziammo questo percorso, immediatamente pensammo: “OK, nessun problema, questo lo potremo automatizzare”. Pensavamo che entro il 1985 avremmo completato l’automatizzazione di tutto il processo... non è accaduto nell’85, né nell’86 e neppure fino a oggi. Ci sono tanti piccoli pezzi del processo che si possono rendere automatici, ma ci sono troppe piccole ma importanti decisioni da prendere, e chi fa il lavoro deve vedere l’ambiente che sta misurando nel suo complesso.
Il sistema SIM è semplicemente un analizzatore, un attrezzo diagnostico come un apparecchio a raggi X: aiuta a confermare una diagnosi, ma non cura niente. Qualcuno deve interpretare i risultati dell’analisi e prendere delle decisioni, eseguire una serie di azioni volte a migliorare il risultato.
Le aspettative del pubblico, in questi anni, sono cambiate?
Sì, le aspettative degli ascoltatori continuano a crescere. Quando iniziai a fare il fonico, quasi tutti crescevano abituati ad ascoltare i dischi in vinile, poi andavano al concerto e dicevano: “Beh, suona diversamente dal mio stereo di casa”. Il concerto era, comunque, un’esperienza enorme. Poi la generazione è cambiata, tutti si sono abituati ad ascoltare il suono preciso e definito dei CD e così tutti hanno iniziato a pensare che il concerto dovesse suonare almeno al livello del lettore CD di casa. Adesso, il pubblico arriva convinto che il concerto dovrebbe suonare come gli auricolari...
A mio avviso, più che altro, in un concerto si crea una connessione tra pubblico e artista, contemporaneamente presenti nello stesso spazio. Questa dovrebbe essere la vera magia del live sound. È per questa esperienza che non mi sono mai particolarmente interessato allo studio di registrazione: voglio essere sul posto dove l’artista forma questa connessione con il pubblico, che poi sente quell’esperienza unica dello stare insieme ai musicisti.
Qual è, secondo te, il sistema “perfetto”?
Nel mio lavoro ho sempre perseguito l’obbiettivo di rendere la qualità sonora uniforme in tutto lo spazio d’ascolto. La mia specializzazione non sta nel far sì che il suono sia “buono” – è un po’ strano dirlo, ma io non sono responsabile per la “qualità” del suono – il mio obbiettivo è quello di far sentire in ogni posizione d’ascolto nella sala lo stesso suono che il fonico di sala sente dalla regia; non penso per nulla al suono in termini artistici. Non penso al mix, o alla chitarra, o all’assolo, o alla voce: io devo solo pensare se suona diversamente in questa posizione rispetto a quell’altra. Voglio trovare qualsiasi differenza e rimuoverla, così che tutto il pubblico viva la stessa esperienza sonora.
Una delle cose più difficili da digerire per chi ottimizza un sistema di amplificazione è che il puzzle non è completamente risolvibile. Semplicemente non è possibile avere l’audio perfetto in ogni punto nella sala. Cercando di fare l’impossibile si arriverà inevitabilmente ad un risultato pessimo. Cercando di aggiustare l’intero sistema per correggere i risultati in una singola posizione, con ogni probabilità si otterrà un suono pessimo in altri 1000 posti. Così, occorre concentrarsi sulle cose possibili.
Del resto, una cosa che mi rende piacevole il lavoro sul campo è che c’è sempre una cosa nuova da imparare, una situazione nuova e diversa da considerare.