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Musica per il mondo, musica nel mondo, musica per esprimersi, musica per esprimere. Musica nel mercato, musica fuori dal mercato, musica commerciale, musica anticonvenzionale, musica trasgressiva, musica anti-trasgressiva. Musica indipendente, musica dipendente. Musica per le immagini, musica pura, musica assoluta, musica contemporanea, musica minimalista, musica leggera, pesante, aleatoria, intellettuale, facile, difficile.
Ogni mondo ha il suo linguaggio, ogni linguaggio ha le sue regole, ogni regola ha le sue resistenze, ogni resistenza ha i suoi criteri. Ed ogni criterio è nuovamente un mondo. Non c’è un punto di fuga a tutto questo parlare intorno l’arte. Il tentativo di definire ciascuno di questi mondi ci porta sempre a guardare i suoi equilibri interni, ci porta a confrontarci con diverse prese di posizione, talvolta culturali, talvolta intellettuali, audaci o sterili, spontanee o funzionali.
Questa sera il ristorante consiglia: Tortino di piccione e un buon bicchiere di latte di cane.
Esiste un pensiero più disgustoso dei cibi fatti con sostanze alimentari provenienti da animali dei quali non ci nutriamo? È stano, il limite tra gustoso e disgustoso passa per abitudini culturali del tutto arbitrarie e casuali. Un buon bicchiere di latte vaccino o un tortino di manzo non sono certo così lontani dai loro oltraggiosi parenti. Eppure le nostre sensazioni, la nostra percezione di cosa è giusto o cosa è sbagliato è ferma e decisa. Anche in musica le nostre abitudini producono posizioni altrettanto forti? Le note con cui alimentiamo le orecchie seguono forse gli stessi principi delle abitudini alimentari? Se così fosse non rischiamo forse di perdere qualcosa dell’infinito ventaglio di possibilità che la musica può offrirci?
È naturale e giusto avere delle abitudini ma le abitudini devono essere anche riconosciute altrimenti rischiano di diventare inconsci e insormontabili macigni.
Pare che Johann Sebastian Bach di fronte ad uno dei primi esemplari di pianoforte abbia pronunciato una frase che tradotta nella nostra lingua suonerebbe più o meno: “Ma cos’è questa merda?”. È una bella frase per tanti motivi, il primo è che riporta Bach dallo status d’icona a quello di uomo, e la seconda perché non tutti gli strumenti sono forse sempre belli.
Fatto sta che al nostro Bach non sarebbe piaciuto questo primo esemplare di fortepiano provato nella prima metà del ‘700. Al museo degli strumenti musicali di Bruxelles, forse uno dei musei più vivi che abbia mai visto, c’è un esemplare di Glasspiel del 1750 circa, uno strumento costituito da decine di bicchieri di dimensioni diverse appoggiati uno dentro l’altro che venivano suonati facendoli ruotare e sfregandone il bordo con le dita umide, proprio come facciamo con i nostri calici di vino. Forse uno degli strumenti dal suono più atroce di sempre. Eppure uno strumento che possiede partiture firmate da W.A. Mozart.
Chiamiamo musica un insieme di manifestazioni tanto composito che forse perdiamo di vista tutte le sue sfaccettature. A volte le parole diventano talmente potenti e qualificanti che non ne riusciamo più a percepire il vero significato e si crea un vortice dove senso, significato e cognizione diventano tutt’uno. L’ombrello è un oggetto che fa pensare immediatamente alla pioggia, eppure a guardare meglio con la pioggia non a nulla a che fare: la sua radice è l’ombra, e l’ombrello appunto nasce per proteggere dal sole. Soltanto successivamente qualche geniaccio ha pensato di utilizzarlo anche per la pioggia ma senza cambiargli nome.
E se dico Musica, a cosa pensiamo?
Non molto tempo fa alla parola musica poteva essere associato esclusivamente il fatto che qualcuno suonasse qualcosa. Oggi la musica è tanto altro: è un iPod, una cuffia, una radio, un cinema, un telefonino. Inoltre siamo abituati a pensare alla musica per immagini, a vedere cose, a pensare ad un “film”, per ogni musica c’è un video, una copertina, un art-work, un sito web. Ci stiamo perdendo qualcosa o è tutto di guadagnato?
Capita spesso di sentire commenti sulla musica fondati sull’idea che qualcosa “non sia più come prima”: non esistono più i gruppi di una volta, non esistono più i Grandi Compositori, la discografia non è più quella di una volta, eccetera, eccetera.
La stessa frase la diranno i nostri nipoti e i nipoti dei nipoti. Eppure questa malinconia ha l’aria di essere un’assenza interiore piuttosto che una carestia creativa. Anche quest’anno, un paio di mesi fa sono stati assegnati i Grammy Awards. Chi li ha vinti? Sulle testate dei giornali è passata la notizia che siano stati i Daft Punk, Lorde, Bruno Mars e Katy Perry. Tuttavia i Grammy Awards consistono in ben ottantadue premi che vanno ad altrettanti artisti appartenenti ad altrettante categorie, dal Miglior Album Rock al Miglior Album Strumentale, passando per la Miglior Performance per Coro fino alla Miglior Musica da Film. Se poi consideriamo che per ciascuna categoria vengono stilate cinque nomination, va da sé che la lista completa offre consigli d’ascolto per ben quattrocentodieci titoli.
Non sarà forse la curiosità a non essere più quella di una volta?
Nelle nostre scuole d’infanzia insegniamo ai bambini a colorare dentro i bordi, a ritagliare sul tratteggio, a dipingere il tronco marrone, le foglie verdi e la neve bianca. I capelli non sono viola, il cielo non è rosa, il cane non parla e la mucca traballa. Ma se l’autunno diventa per tutti marrone, la primavera gialla, l’estate rossa e l’inverno bianco, non stiamo forse cancellando alle radici la capacità di vedere di ciascuno? Dove inizia nella nostra società quell’omologazione che appiattisce i sentimenti, le visioni, le sensazioni? Dove inizia quell’omologazione che fa suonare la chitarra tutti allo stesso modo con quella smodata tendenza al blues, la batteria funky, il piano jazz, e che trasforma il violino in due sole cose equidistanti come lo strumento classico e la sua trasgressione popolare? I musicisti non sono più quelli di una volta…