Massimo Ranieri
L’Opera da tre soldi
di Alfio Morelli
Massimo Ranieri è Mackie Messer nell’Opera da tre soldi del regista Luca De Fusco. Un ruolo intrigante, quello del fascinoso delinquente protagonista della commedia di Bertolt Brecht, in cui l’attore napoletano impegna tutte le sue capacità di cantante, ballerino, interprete, acrobata, mattatore.
L’opera da tre soldi occupa un posto importante nella storia del teatro. La cosa che ci ha sempre meravigliato è che, pur essendo essenzialmente una feroce critica della società borghese, l’opera fu portata al successo proprio dallo stesso pubblico borghese andato a vedere la prima rappresentazione di Berlino nel 1928, mentre la classe proletaria, a cui Brecht si rivolgeva anche nel titolo (che si riferiva all’economicissimo prezzo del biglietto) disertò completamente la messa in scena. Evidentemente guardarsi allo specchio è sempre piaciuto.
L’opera unisce provocatoriamente vari stili musicali e momenti di prosa, ma anche tecnicamente propone delle innovazioni per allora importanti, come l’abolizione del concetto di mimesi, cioè dell’imitazione della realtà, con l’abbattimento della cosiddetta “quarta parete”, cioè quella ideale che separa gli attori dal pubblico, al quale infatti i protagonisti spesso si rivolgono direttamente.
Brecht aveva ambientato la vicenda nei bassifondi della Londra vittoriana, mentre le scene di Fabrizio Plessi, tra i più grandi videoartisti italiani, trovano il loro punto di forza in una serie di televisori, con le immagini di Napoli in bianco e nero, a raccontare la città tanto nello sfacelo del secondo dopoguerra quanto nella sua evoluzione di metropoli postmoderna.
Assistiamo allo spettacolo al Teatro Dante Alighieri di Ravenna che, con una capienza di oltre mille posti e quattro ordini di palchi, è un bell’esempio di teatro all’italiana. Nel pomeriggio, durante le prove, possiamo apprezzare la professionalità e la pignoleria con cui lavora Massimo Ranieri, davvero encomiabile. Inoltre notiamo subito la scenografia, con il fondale che ci ricorda, non certo a caso, l’Albergo dei Poveri di Napoli, e mentre i costumi ci riportano all’Ottocento, tanti altri elementi sul palco ci portano fino ai tempi nostri.
La scenografia fatta con un fondale fotografico, rappresenta una palazzo con 13 finestre, dove sono posizionati dei monitor al plasma che visualizzano grafiche digitali. La scena è invece formata da tre cumuli d’immondizia moderna – cavi, computer, scarti elettronici – montati su ruote e spostati per creare un’ambientazione sempre diversa. Il regista, Luca De Fusco, ha interpretato e voluto una scena quasi completamente in bianco e nero, a sottolineare l’ambiente crudo del racconto.
La nostra ricognizione dei professionisti del backstage inizia da Giuliano Bailetti e Simone Palinga, fonico di palco e microfonista, dai quali ci facciamo spiegare il set-up del palco.
“Per riprendere le voci degli attori – ci spiega Simone – usiamo due tipologie di microfoni: sei DPA 4066/4088 cardioidi, montati su archetti, usati sui cantanti che hanno un’emissione e una dinamica più difficili, mentre sui rimanenti attori usiamo dei Sennheiser MKE1, omnidirezionali, attaccati sulla pelle. Per tutti i microfoni abbiamo usato un sistema di trasmissione M3732 Sennheiser, mentre per l’orchestra la scelta è caduta sugli Schoeps CMC con capsula MK4 cardioide – tranne per contrabbasso e banjo su cui abbiamo usato degli Audio-Technica”.
“Per il monitoraggio – continua Giuliano – usiamo un sistema misto: quattro diffusori UPA‑1 della Meyer, due davanti e due dietro, sono appesi in quinta, in modo da coprire tutto il palco uniformemente; qui viene mandato un mix totale tra voce e musica. In aggiunta a questo sistema, usiamo un sistema Kobra della K‑Array, steso orizzontalmente, appoggiato a terra e rivolto verso il palco, con cui diffondiamo prevalentemente il parlato. Questo sistema aiuta gli attori a essere sempre monitorati anche su un recitato che avviene dall’altra parte del palco. Tutto controllato da un mixer digitale Digidesign, davvero indispensabile in una situazione del genere. Grazie al mixer digitale, infatti, ho potuto dividere lo spettacolo in tante scene, cosa di grande utilità per gestire velocemente in maniera diversa i momenti del recitato, quasi sussurrati, e quelli cantati, con una grande escursione dinamica. Richiamando le scene vengono cambiati anche i settaggi dei canali, gain, equalizzazione, compressione, ecc; ma, nonostante queste automazioni, devo comunque avere costantemente entrambe le mani sul mixer, perché ogni momento va seguito con attenzione”.
Giuliano e Simone sono uomini del service Agorà, ma in pratica lavorano costantemente con Massimo Ranieri da ormai cinque anni, tra teatro e tour musicali, visto che l’artista ha sempre tre o quattro produzioni in contemporanea. Questo è certo un vantaggio sia per l’artista sia per i tecnici che conoscono ormai tutte le richieste e le necessità di Ranieri, il quale ripone in loro la massima fiducia, corroborato certo dagli ottimi risultati.
Nel backstage incontriamo anche Maurizio Fabretti, lighting designer dello spettacolo.
Abbiamo notato un disegno luci piuttosto particolare, ce ne puoi parlare?
Lavoro con Massimo Ranieri da molti anni e tramite lui ho conosciuto Luca De Fusco e Fabrizio Plessi, rispettivamente regista e scenografo di questa rappresentazione. La loro idea era quella di una scena tutta in bianco e nero, mentre il colore doveva apparire soltanto in due momenti finali: l’impiccagione, in cui la scena doveva tingersi di rosso, colore della disperazione, per poi diventare blu al momento della liberazione, colore che richiama i grandi spazi e quindi la libertà. Durante lo spettacolo ho lavorato con molto contrasto, usando un bianco caldo per creare un ambiente più luminoso, quando sulla scena erano presenti contemporaneamente più attori, oppure un bianco più freddo per illuminare singoli attori o alcuni particolari in modo più definito, sottolineando il pathos di alcuni momenti molto forti.
Qual è la sinergia con il video?
Sono due cose abbastanza separate: sui video vengono mandate delle immagini che fanno parte della scenografia e sottolineano in altro modo i momenti della storia. Con le luci devo soprattutto evitare di sporcare i video, ma poi è normale che le luci lavorino in sinergia con le immagini.
Tutto il materiale luci viaggia con la produzione? In quanto tempo lo montate?
Per le luci facciamo richiesta al teatro che normalmente, in base ad un disegno precedentemente inviato, ce le fa trovare sul posto; così noi portiamo solo la console, una grandMA. Per il montaggio occorrono due giorni, compresa la scenografia e l’impianto audio. Il disegno luci prevede cinque americane sul graticcio ed una serie di proiettori fuori dal palco. Richiediamo oltre cento pezzi, compresi 18 testemobili della Clay Paky.
Finite le prove scendiamo in platea dove incontriamo Andrea Tesini, fonico Foh.
Andrea... ti si è ristretto il PA!?
Essendo uno spettacolo teatrale non servono grandi potenze, serve invece un PA preciso, che copra correttamente tutta la venue e che sia il meno ingombrante possibile. Per questo è stato scelto il Meyer M1D con otto sistemi per lato, più due UPA‑1 centrali, quindi un main in grado di servire tutti gli ordini dei palchi ed anche una buona parte della platea. Per coprire uniformemente le prime file abbiamo invece appoggiato sul palco una UPA‑1 per lato, abbinata a dei diffusori K‑Array Kobra adagiati orizzontalmente sul palco ed ovviamente girati verso il pubblico. Tramite i processori Meyer Galileo abbiamo allineato tutto il PA molto indietro, in linea col palco, in modo che lo spettatore in sala abbia la percezione che il parlato venga proprio dalla scena. Questo è il sistema PA che usiamo nei teatri all’italiana, mentre quando ci troviamo in spazi più grandi montiamo un M’elodie, sempre della Meyer.
Trovi difficoltà nell’appendere il PA nei teatri?
No, non questi, perché i due impianti che usiamo normalmente, specialmente l’M1D, pesano poco più di qualche testa mobile.
Che mixer usi?
Il fratello di quello che abbiamo sul palco: un Digidesign. Devo dire che il mixer digitale in questa produzione è una mano santa. Infatti lo spettacolo ha dei momenti sussurrati ed altri con pieni di orchestra e cantanti molto forti, quindi per riuscire a star dietro alle esigenze dinamiche abbiamo creato tante scene, con guadagno, compressione, equalizzazioni molto differenti, con l’obiettivo di non rovinare la dinamica dell’esecuzione e far arrivare al pubblico la miglior qualità possibile. Questo mi costringe a lavorare al mixer con un occhio alla partitura, scena per scena, e ad avere sempre le mani sui cursori, mantenendo un’attenzione massima a quello che succede sul palco.
Infine si spengono le luci e si va in scena. Lo spettacolo è bello e piacevole, ottime le luci ed impeccabile l’audio. Bravissimi gli attori sulla scena e veramente notevole la recitazione di Massimo Ranieri, che non ci aspettavamo così eclettico.
Certamente si tratta di un’opera teatrale colta e molto particolare, in alcuni momenti un po’ lentina, ma le tre ore passano abbastanza velocemente anche per uno come me abituato ai palchi rock.