K-array - Alessandro Tatini – CEO e co-fondatore
In occasione della recente inaugurazione del rinnovato stabilimento di San Piero a Sieve (FI), abbiamo chiacchierato con il CEO di K-array per ripercorrere la storia dell’azienda.
di Alfio Morelli
Come molti sanno, l’azienda toscana si è distinta nel mondo dell’audio per l’originalità e la genialità dei propri progetti, riuscendo ad affermarsi a livello internazionale. Abbiamo ragionato con Alessandro Tatini sull’evoluzione commerciale di questo marchio così unico e particolare.
Come e quando nasce K-array
È una storia che inizia molto prima della nascita del marchio. I quindici anni precedenti sono stati infatti propedeutici alla seconda fase della nostra vita aziendale. Abbiamo capito come muoverci nel mercato, quali errori evitare. Ad un certo punto ci siamo detti: ‘La nostra esperienza viene dal mondo professionale; abbiamo scaricato tanti camion e montato tanti palchi, anche in situazioni spericolate; abbiamo respirato i bisogni quotidiani del mondo professionale. Per questo, è lì che ci dobbiamo impegnare a cercare delle risposte.
Sempre con una consapevolezza: l’Italia è un paese bellissimo sotto vari punti di vista, ma che non facilita la produzione e la competizione; abbiamo allora provato a focalizzarci su altro, a cercare scientificamente le singole nicchie di mercato in cui le grandi aziende non hanno interesse a entrare. Per noi, piccola azienda, la somma delle singole piccole nicchie diventava interessante.
Poi è successo quello che nella vita non sempre succede: la fortuna di aver incontrato i ragazzi di Sennheiser, che nel giro di pochi mesi si sono innamorati dei nostri prodotti. Prima Cina e Canada hanno iniziato la distribuzione, poi, a ruota, la maggior parte delle altre succursali. Quando siamo partiti, ci siamo resi conto che mettere il nostro futuro nelle mani di qualcun altro era un rischio: c’era il pericolo di essere fagocitati, come un topolino tra le zampe di un elefante.
Invece è andato tutto bene: siamo partiti a razzo, distribuiti in una ventina di nazioni da Sennheiser; abbiamo catalizzato l’attenzione del mercato e trovato così altri distributori.
Com’è stato negli anni il rapporto con Sennheiser?
Sempre molto buono. All’epoca il loro network era davvero frazionato, e nonostante alcune aziende fossero al 100% di proprietà, avevano dei presidenti locali che operavano in maniera autonoma. Firmavamo contratti singoli con ciascuna filiale, ma nel momento in cui la prima iniziava ad avere risultati con la distribuzione, la seconda e la terza lo venivano subito a sapere e ci chiamavano.
Poi è successo che nel 2014 è entrata la terza generazione alla guida di Sennheiser, che è un’azienda a conduzione familiare; nel giro di pochi mesi hanno stravolto completamente le strategie: hanno chiuso con tutti i marchi distribuiti in giro per il mondo, tranne il nostro. Al momento abbiamo tirato un respiro di sollievo, perché non ci siamo resi conto che il nostro prodotto sarebbe stato gestito da persone che, fino a quel momento, avevano venduto tanti marchi e lavorato su commissione; con la nuova strategia invece c’era a disposizione un solo brand. Quindi nel giro di due mesi tutta la forza di vendita sparsa per il mondo è scomparsa. Ne abbiamo parlato con Sennheiser: sono persone serie, con grande rispetto nei nostri confronti nonostante abbiano da gestire un’azienda da seicento milioni. Hanno capito il nostro problema, ma a quel punto, nel 2015, abbiamo avuto proprio la sensazione che fosse il momento per lo shuttle di sganciarsi dal razzo vettore: Sennheiser è stato un grande propellente, ma dovevamo sganciarci: il 2015 è stato faticosissimo, siamo riusciti a ricostruire la distribuzione nel giro di pochi mesi, perdendo ‘solo’ un 10% di fatturato; nel 2016 abbiamo recuperato quel 10% e ripreso a crescere. La sensazione di essere seduti su una bomba pronta a esplodere era sempre presente: ora che tutta la distribuzione è distinta, ci sentiamo più tranquilli.
Quali sono i mercati più forti, e quali i più difficili?
Da anni, Stati Uniti e Cina sono i due mercati più importanti, che da soli valgono intorno al 50%. La percezione di doverli gestire in maniera accurata c’è sempre stata, con la prospettiva di costruire in questi paesi qualcosa che ci coinvolgesse direttamente. Per i nostri volumi, sono anche gli unici due paesi che a oggi ci permettono di avere una struttura a se stante, che vive col nostro marchio. Poi ci sono state complicazioni: soprattutto in Cina, nonostante ci fossero dei bei fatturati, il distributore non se l’è sentita di continuare con la distribuzione; a quel punto Marc Vincent, ex-presidente di Sennheiser China, ci ha chiesto se ci interessasse qualcuno che gestisse l’Asia, e siamo partiti con lui. Abbiamo trovato un socio cinese che ha finanziato, e quindi da co-partecipanti di questa azienda più grande abbiamo iniziato a seguire la nuova realtà: siamo sul loro gestionale tutti i giorni, vediamo lo stock, i fatturati, i movimenti, le azioni in anticipo, eccetera. Questo accadeva in aprile, e le cose stanno andando molto bene; le persone sono perlopiù ex-Sennheiser, agenti con cui avevamo già lavorato. Negli Stati Uniti invece si pensava di fare qualcosa di simile tra un paio d’anni, ma i tempi si sono affrettati quando è successo qualcosa di simile ai distributori cinesi, e siamo dovuti ripartire da capo.
Per quanto riguarda il mercato più difficile, sicuramente in questo momento è l’America Latina. Vorremmo rientrarci, ma le ragioni delle difficoltà sono scritte sui giornali: la situazione politica ed economica è complessa, e probabilmente hanno altro cui pensare.
Ripensando ai prodotti realizzati, quali promuoveresti a pieni voti, e quali con la sufficienza?
Difficile, da una parte c’è il cuore e dall’altra ci sono i numeri. Tra i prodotti strani, che non hanno riscosso successo, c’è K-array Owl, il testamobile audio: abbiamo fatto anche installazioni importanti e varie cose belle, ma il livello dei numeri non è stato proprio all’altezza. Ci siamo divertiti a ideare il software, abbiamo risolto problemi per far controllare l’audio da una console luci, senza contare poi la parte di sincronizzazione delle sorgenti che devono essere riallineate ogni volta su un fronte d’ascolto diverso. Se penso al tempo che ci abbiamo investito, forse non ne valeva la pena, ma è un prodotto che bene o male ha fatto parlare di noi.
Qualcosa che rifarei, invece, è il KH7: un prodotto nato per sbaglio, derivato dal fratello maggiore KH8. I primi utilizzatori ci hanno chiesto qualcosa di più piccolo; così ci abbiamo pensato e ripensato, perché non ci veniva qualcosa di innovativo o, almeno, di ‘furbo’ rispetto al mercato già esistente. Nel pensare a come impacchettare questi ‘ragazzetti’ più piccini, se in teste da 2×8" o da 2×10", ci siamo resi conto che serviva un sacco di elettronica e di cablaggi. Dato che, con il digital steering, ogni elemento è intelligente e costa parecchio, quattro di questi oggetti, alla fine, costavano più di quelli grossi. Allora, ecco l’idea di un elemento che potesse essere messo in array sia in verticale sia in orizzontale, e che richiedesse pochi cablaggi; alla fine, ha funzionato: ne parlavo con Wolfango (De Amicis, titolare di Agorà, ndr) poco tempo fa, il quale mi ha assicurato che è un oggetto che non sta mai fermo in magazzino.
Fra i lavori fatti in giro per il mondo, di quale ti senti più orgoglioso?
Tra le tante belle sfide, ricordo con piacere quella in un parco tematico in Cina, chiamato Dragon and Tiger Mountain, patrimonio dell’Unesco: ci sono queste gole tra le montagne, alcune delle quali contengono sepolture di migliaia di anni, che cadono a picco su un fiume cristallino. Quando sono arrivato era un posto selvatico, e il pensiero che diventasse un parco tematico mi stringeva il cuore; poi, è venuta fuori una cosa spettacolare. Se arrivi oggi, non vedi quasi nulla di artificiale, ma è un’impressione: i barconi che portano le persone sul fiume si muovono su un binario ancorato sul fondo; mentre nascosti nel canneto ci sono sette palchi con i nostri sistemi Firenze; mentre cammini, compaiono tra le canne spettacoli itineranti incentrati sulla storia della regione.
Puoi parlarci di qualche prodotto del futuro? Sembra che non vi fermiate mai.
Vero! Per ora, molti dei prodotti in uscita vanno a completare delle serie già esistenti. Poi stiamo mettendo a fuoco brevetti sia nel mondo degli auricolari, sia nel mondo dei microfoni: per quanto riguarda le cuffie, abbiamo già un prototipo interessante; per i microfoni, abbiamo vinto un progetto europeo nell’ambito ricerca e sviluppo tramite la regione Toscana, simile a quello che ai tempi ci permise di produrre KH8 e KH7.
Conta poi che da un paio d’anni siamo tornati a fare ciò per cui eravamo nati, la ricerca e sviluppo per conto terzi: ci piace essere coinvolti in progetti con altre aziende, alcuni dei quali quasi avveniristici, penso a un palo della luce intelligente per le smart city a cui stiamo lavorando, che saluta, dà informazioni, diffonde musica, eccetera, senza avere l’aspetto di un altoparlante.
Andare a cercare aziende esterne con cui collaborare è l’unico modo per rimanere ‘affamati’ di novità, per cercare soluzioni in ogni ambito che trattiamo. Da una consulenza è partito per esempio un altro progetto molto valido: una ‘riga’ di audio e luce, che può essere appesa, messa a plafone, e quant’altro; consiste in un array continuo di audio modulare da 1,10 m, insieme a un impianto luce disponibile in almeno ottanta soluzioni, dalla parabola agli spot orientabili, tutto controllabile da remoto. In teoria andrà in produzione da giugno, ma già qualche architetto l’ha ordinato. E tutto è partito per scherzo! Da tempo c’era l’idea di unire audio e luci; pensavamo a soluzioni per i treni, per i corridoi degli alberghi, per le pensiline dove si fanno annunci, eccetera. Il costo è praticamente lo stesso di una classica soluzione audio più luci, ma qui è tutto integrato, è quasi invisibile, e per la manutenzione basta sostituire un elemento ed è fatta.
Comunque se si parla del futuro, è sempre difficile capire dove tirerà il vento: per ora non c’è niente di più efficiente di un altoparlante, dal punto di vista energetico e di costi, ma chissà cosa ci aspetta.
La tua vasta esperienza deriva solo dal tirar cavi?
Io non sono ingegnere, lo dico sempre. Semmai sono ingegnoso! Credo che la mia formazione nasca in parte dall’esperienza e in parte dalla curiosità, dalla volontà di capire come funzionano le cose. Quello che ho imparato guardandomi intorno è che, spesso, si dà per scontato che per tutto ci debba essere una ragione; a volte in effetti c’è, e spesso è quella sbagliata! Quando ti accorgi che tutti fanno le cose in un certo modo, pensi che sia l’unico modo per farle, ma non è così. Certo, la parte pratica viene spesso prima di quella teorica, le cose si fanno e poi si pensa al perché; è normale, anche l’uomo primitivo ha inventato la ruota perché funzionava, poi si è interrogato sul perché. Quindi si fanno tante cose, penso per esempio agli array microfonici, che prima si provano, e poi si migliorano passo a passo. Se il risultato arriva è però necessario chiedersi le motivazioni, o può venir fuori che è stato raggiunto per sbaglio e che non è replicabile.
Il tuo sogno nel cassetto?
Che questa azienda sopravviva a me e a Massimo (Ferranti, co-fondatore e CFO, ndr). Certo, i miei figli faranno la loro strada, non so se vorranno continuare. Ma una sessantina di famiglie vive di questa azienda, quindi non possono esserci altre dinamiche che vengano prima del loro futuro. Quello che abbiamo costruito non appartiene solo a noi fondatori, è di tutti coloro che si sono uniti a noi strada facendo. Rendere stabile tutto questo è la priorità. Se penso a dieci anni fa, la sezione ricerca e sviluppo era composta da due persone: io disegnavo i circuiti stampati e un collega assemblava i prototipi, eravamo solo in due. Oggi c’è un team, a cui mi permetto ancora di lanciare degli spunti; ecco, negli anni mi piacerebbe che altri avessero spazio per tirare fuori le loro idee.