Caro Direttore, siamo fatti della stessa stoffa dei sogni
Il punto di Stefano Cantadori, fondatore di AudioLink, sull'attuale situazione del nostro mercato.
di Stefano Cantadori
Vengo da una generazione di sognatori, speravo in un mondo migliore. Desideravo che la mia Italia si muovesse verso l’equità sociale, senza la quale libertà è una parola vuota. Speravo che la macchina burocratica – cieca, idiota e bizantina – si depurasse per avere finalmente un respiro europeo, quello dei paesi più avanzati dove la parola democrazia significa anche pari diritti fra Stato e Cittadini.
Purtroppo, caro Alfio, è andato tutto a puttane. L’analisi delle cause non è difficile, ma non è questo il luogo. Mentre il resto del mondo cosiddetto civile progrediva e prosperava, noi siamo rimasti indietro, e il quadro attuale è sconsolante; non facciamo, noi Stato, assolutamente nulla per correggere le nostre ataviche storture, nemmeno cercando di adottare le soluzioni che nel mondo hanno dato prova di funzionare. Anzi, ce ne inventiamo sempre una nuova. Ci sentiamo più furbi, nessuno fa meglio di noi, nessuno può dirci cosa dovremmo fare. E abbiamo continuato a peggiorare. Qualsiasi pifferaio magico passi nel villaggio sul suo cavallo bianco, promettendo pane salame e vino per tutti, lo acclamiamo come il più grande dei profeti, e lo mettiamo sul trono, non importa chi sia e quanto sia stronzo o incapace. Noi Stato siamo il mostro a tre teste che continuamente tiene un piede sul collo dei cittadini, anzi tre piedi, li combattiamo come se fossero il nemico invece di noi stessi.
Ecco, caro Alfio, anche da ragazzo, ribelle moderato e democratico, non riuscivo a mandar giù l’ingiustizia e quel patinato mondo perbenista dentro al quale scorreva il sangue degli oppressi, benché tutto quel castello fosse tenuto in piedi dalla loro opera e dal loro sudore.
Per cui, da sognatore, scelsi quella strada che aveva il profumo della libertà: il facchinaggio artistico.
Ho lavorato fino a perdere coscienza, a spezzarmi la schiena, ho passato giorni senza dormire, una tortura straziante, senza mangiare era il meno. Ho sperimentato sulla mia pelle e su quella dei miei amici tutti gli errori elencabili, ho aperto la strada, insieme a un pugno di altri, a questo mestiere. Come mi ricordano nel resto del mondo, in quest’arte sono uno della seconda generazione. Quando le cose della vita e la salute residua me l’imposero, smisi di stare sulla strada ma ancora non mi cercai un lavoro vero. Me ne inventai uno, per rimanere in contatto con quel sogno.
Passo dopo passo, dalle valvole al silicio, ai computer, alle fibre ottiche, all’alluminio al posto del ferro, ogni passo possibile per la sicurezza sul lavoro, ho contribuito allo sviluppo del settore. Il mio animo è rimasto puro e ancora oggi i miei eroi sono i tecnici, so chi sono, la musica è addirittura secondaria. Stupenda la scarica di adrenalina quando comincia lo spettacolo, nessuna droga è migliore di quella prodotta dal tuo corpo ma so che nella stragrande maggioranza degli allestimenti potremmo cambiare l’artista e lo spettacolo funzionerebbe lo stesso. È Son et Lumiere, caro Alfio, provo quasi pena per i fan che urlano e delirano per il loro cantante preferito.
In tutto questo, eravamo e siamo rimasti sognatori. Oggi, un brusco risveglio ci chiede di fare i conti con noi stessi. Samo i più fragili della catena dello show-biz, fantasmi dietro le quinte.
A differenza degli operai che mandavano avanti le fabbriche in condizioni spesso disastrose e che hanno lottato tutti insieme per un miglioramento delle condizioni di vita, organizzandosi, noi siamo rimasti quegli individualisti sognatori di sempre.
Tecnici, service, stessa pasta stesso destino.
Nel 2012 scrissi per la tua rivista un articolo piuttosto incazzato Sopra il Palco le Rose, sotto al Palco le Spine. Invito a rileggerlo, oggi.
Per farti vedere quanto sono colto, riporto un paio di frasi de La Tempesta, che in questo periodo non smettono di aleggiarmi in testa.
“Sono finiti i nostri giochi. Quegli attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile. E, come l’edificio senza basi di quella visione, anche gli alti torrioni incoronati di nuvole e i sontuosi palazzi e i templi solenni e questo stesso Globo, immenso, con le inerenti sostanze, dovrà sfarsi, come l’insostanziale spettacolo dianzi svanito, e svanirà nell’aria senza lasciar fumo di sé. Noi siamo della stoffa di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è cinta di sonno”.
Così ci sentiamo ora, addormentati e relegati sui nostri divani, la carica di passione e sogni che ci ha portato lungo un cammino talvolta incerto, sono sopiti da un decreto a difesa di una più alta causa: la vita umana.
Navighiamo in un mare in tempesta, in cui si alternano la furia delle onde, la rabbia, la speranza. La nostra voglia di combattere ci trova impotenti nel più fragile dei vascelli.
E ancora:
“Ora rinnego la barbara magia e quando avrò chiesto, come adesso chiedo, un’armonia celeste che con aereo incanto agisca sui loro sensi, perché era questo l’intento, spezzerò il mio bastone e lo metterò nel profondo della terra, e là, dentro il mare, dove non giunge lo scandaglio, affonderò il mio libro”.
È commedia che proprio le parole del più grande fra i grandi del teatro, descrivano così tragicamente ma con la realtà del giorno, la situazione che stiamo vivendo, citazione migliore non riesco a trovarla. Ho esitato a lungo prima di mandarti queste mie righe, proprio io, un combattente inesauribile e fermamente determinato a superare ogni ostacolo, anche i più nascosti, che la vita dissemina sulla nostra strada.
Il Globo, in lingua originale The Globe, il teatro andato a fuoco, verrà ricostruito e ci saranno nuovi spettacoli, nuovi concerti e nuovi eventi. Ma non tutti noi ne faremo parte.
Per noi parìa dello spettacolo, quelli che lavorano sotto al palco con le mani nelle spine, si prospetta una lunga carestia. I preti potranno salire sui loro amboni ad arringare il loro pubblico ma noi non potremo accendere le nostre luci, costruire palchi, far scorrere elettroni nei nostri impianti per muovere l’aria trasformandola in suono.
Non potremo mettere in scena nessuna delle nostre magie.
Amarezza? Tanta, e poi ancora di più. Non siamo considerati “cultura” caro Alfio, anche quella povera in denari ha le sue rose, si mostra al mondo. Noi no, siamo quelli dietro le quinte, non contiamo. Siamo fantasmi.
Il mio amico Carlos, fuggito da due dittature quando molti dei suoi amici stavano “misteriosamente” scomparendo, arrivò in Italia, dove in quel del Piemonte istruì almeno due generazioni di tecnici, che lo adorano. La prima volta che lo incontrai, stetti ad ascoltarlo per due ore, a bocca aperta. Da qualche tempo ha perso parte dell’udito, lui, tecnico del suono, e lo Stato Italiano dove paga le tasse, a torto o a ragione, gli ha rifiutato la malattia professionale. Da allora, è costretto ad arrangiarsi. Cos’è, allora, la libertà?
Sì, caro Alfio: noi ci arrangiamo, con le briciole dei pasti altrui. Siamo retti dalla passione e dall’orgoglio e, credimi, da una quota di generosità sul lavoro che non ha facile riscontro in altre categorie.
Solo che noi, quelli del live, la categoria professionale non la abbiamo. E non possiamo farvi ricorso per premere sul mondo della politica.
L’intera nostra filiera è ignorata: i primi ad essere fermati e gli ultimi che avranno la possibilità di ripartire.
Allora da dietro le quinte, dove percuotiamo le lamiere che fanno il tuono, dove impugniamo gli archi voltaici per fare i lampi, raccogliamo i nostri attrezzi e usciamo sulla scena, davanti al pubblico schierato, calcando in rivolta quelle tavole a noi proibite quando la gente è in sala.
Non siamo in cerca di elemosine, ma di equità sociale.
Perché noi contiamo. Noi, sfruttati ignorati e calpestati, esistiamo.
Nelle piazze, dunque, ma solo quando si potrà, poiché ogni palcoscenico sarà ancora comunque proibito, come limitato il diritto a manifestare. Nei nostri cortili allora, dove montare i nostri impianti e lanciare luci verso il cielo. Tutti insieme.
Per essere visti, per essere ascoltati.