Ing. Arturo Vicari

Se fosse uno chef, di fianco al suo nome ci sarebbero tre stelle Michelin. Con le sue ricette ha portato il suono emiliano nel gotha dell’audio mondiale.

Ing. Arturo Vicari

di Alfio Morelli

Oggi il Gruppo RCF rappresenta un punto di riferimento indiscusso nel settore dell’audio professionale d’alta gamma, annoverandosi tra i principali operatori a livello mondiale. La sua storia, costellata di successi e innovazioni, affonda le radici in molti decenni di esperienza e passione per l’acustica. E uno dei fautori di questo successo è sicuramente Arturo Vicari, o “l’Ingegnere”, come è noto nel settore. Dopo una lunga gavetta, iniziata negli anni Sessanta e poi proseguita con la fondazione di AEB, Vicari ha poi ricoperto il ruolo di AD nell’azienda di Reggio Emilia da metà degli anni Novanta fino a oggi.

L’ho incontrato nel suo ufficio di Bologna, presso la sede di AEB Industriale, la sua prima creatura: mi ha accolto con un sorriso, lo sguardo affilato e l’inconfondibile personalità. Ho avuto così il privilegio di farmi raccontare la sua storia, rievocando insieme a lui un’Italia rampante che forse non esiste più, con i suoi aneddoti – i cui personaggi saranno familiari a chi frequentava il mercato italiano e internazionale di allora – e le sue stranezze; ma anche rivolgendo lo sguardo al futuro, visto da colui che ha avuto il grande merito di portare i marchi emiliani nel mondo.

Ingegnere, la prima domanda riguarda ovviamente l’inizio del suo cammino nel mondo dell’audio.

Io provengo da una famiglia molto modesta dell’hinterland bolognese. Ho studiato ingegneria, ed ero uno studente molto volenteroso, che si doveva mantenere da solo grazie alle borse di studio, visto le scarse possibilità di partenza. Appena laureato, trovai un’impiego presso l’Olivetti di Ivrea. Lo stipendio era abbastanza buono, tant’è che ho iniziato subito a mandare i soldi a casa. Però c’era qualcosa nel sistema che non riuscivo ad accettare, che non era nella mia indole. Tutte le mattine, allineati come soldatini, facevamo la fila davanti al palazzo degli uffici per andare a sedere alla scrivania, e tutto questo mi dava una vera sensazione di disagio, tant’è che, dopo appena tre mesi, mi licenziai e tornai nella mia Bologna. Mi misi subito alla ricerca di un nuovo lavoro: su un quotidiano lessi l’annuncio di una ditta che cercava un ingegnere esperto di microfoni, e notai subito che era scritto in maniera un po’ particolare. Quando telefonai, dall’altra parte del filo mi rispose Hans Bauer: tra il suo italiano e il mio inglese riuscimmo a mettere assieme un dialogo e ci accordammo per l’inizio di un rapporto lavorativo. Lui era un distinto signore viennese, che era venuto nel nostro paese grazie agli alleati inglesi, durante la seconda guerra mondiale.

All’epoca il sig. Bauer era un commerciante di materiale musicale e la mia figura era legata alla nuova distribuzione sul territorio nazionale dei prodotti AKG. A seguito di un colloquio presso gli uffici AKG di Vienna, venni assunto direttamente dal marchio austriaco. Il mio compito era quello di costruire una rete vendita e promuovere i prodotti presso negozi di strumenti musicali, studi di registrazione ed emittenti radio televisive – che in quel periodo voleva dire RAI. Furono anni pieni di soddisfazioni, il mercato rispondeva benissimo e i fatturati crescevano, dato che erano gli anni in cui in Italia andava tutto bene. Fu allora che nacque l’amicizia con Giuseppe Porro: lui era il direttore della BASF, un tecnico dalle capacità raffinatissime, molto ben voluto negli ambienti RAI, una sorta di Deus ex machina perché era l’unico che sapeva mettere le mani sui registratori professionali dell’epoca. Con Giuseppe si creò un bel rapporto: ci davamo supporto a vicenda, visto che vendevamo dei prodotti complementari.

Poi arriva AEB?

Il bellissimo rapporto con Bauer durò una ventina d’anni, e fu per me un arricchimento personale e professionale eccezionale. Nonostante il mio impegno con Bauer, mi ero creato anche una piccola attività di costruzioni elettroniche, che gestivo nel tempo libero. In quel periodo nel mercato musicale nazionale non si trovava praticamente niente, oltre ai soliti prodotti tradizionali per lo più importati. Con la mia ditta progettavo e costruivo tutti quegli accessori che il mercato chiedeva, che non si trovavano o erano costosissimi. Fu con molto dispiacere che nel 1989 mi separai da Bauer: molta della mia esperienza la devo a lui, mi insegnò una professione e, cosa ancora più importante, mi insegnò l’autodisciplina, valore di cui feci tesoro. La decisione di sciogliere l’impegno con AKG, e di conseguenza con Bauer, venne dalla proposta di entrare in società con un gruppo americano per creare una distribuzione di prodotti Hi-Fi sul territorio nazionale. Come prima esperienza fu tragica, e ne uscii con le ossa rotte. 

Fortunatamente avevo tenuto aperta la mia AEB, con la quale continuavamo a progettare e produrre materiale elettronico. In quel periodo mi appassionai al mercato musicale, al sabato andavo in giro per negozi di strumenti e mi mettevo a disposizione. Frequentando l’ambiente musicale, conobbi Gianni Morandi, Guccini, Piergiorgio Farina, Dodi Battaglia e tanti altri. Cercavo di capire quali fossero le loro esigenze, cosa mancava; poi con AEB progettavo e mettevo a punto nuove idee. In quel periodo stavamo lavorando al progetto del primo radiomicrofono. Sottoposi il progetto agli Austriaci, con i quali, fortunatamente, eravamo rimasti in buoni rapporti, e a loro piacque moltissimo. Cominciammo così una produzione conto terzi. Fu un momento fortunato, che mi diede la possibilità di risollevarmi da quella brutta avventura.

E finalmente la proposta di RCF.

Quando nel ‘93 si rese disponibile una quota importante di RCF, a seguito di problemi societari e prodotti un po’ datati, raccolsi la sfida. A una condizione: volevo essere l’amministratore delegato con i pieni poteri. Accettarono la mia proposta e, a quel punto, bisognava trovare i soldi per acquistare le quote. Mi recai in banca dal mio amico direttore, chiedendogli la cifra che mi serviva; ti assicuro che per l’epoca erano cifre che facevano tremare i polsi. Il mio amico si sedette e mi chiese che garanzie potessi dare. E con molta disinvoltura risposi: ‘IO!’ Il direttore sbiancò, e mi disse che l’avrebbe presentata, ma con scarse possibilità di ottenere l’approvazione. Dopo una settimana, con molta felicità anche sua, mi comunicò che la proposta era stata accettata, e così iniziò la mia avventura in RCF. I primi tempi non furono facili, si doveva combattere con l’establishment della vecchia guardia, che voleva portare avanti progetti e linee un po’ datate, mentre io volevo esplorare nuovi mercati, come quello musicale. Ricordo ancora una riunione in cui ho presentato lo studio della ART, prima cassa di RCF in plastica. Dal gruppo si alzò un signore che esclamò in reggiano: ‘Va mo’ da bonn ?’, che vuol dire qualcosa tipo ‘ma stai dicendo sul serio?’. Fu il mio primo progetto importante, con il quale ci presentammo alla fiera musicale di Los Angeles. Fu un successo mondiale, poiché ART aveva un suono musicale che tutti apprezzavano: ne vendemmo veramente tante, e le continuiamo a vendere. Cominciammo ad arrivare in molti paesi del mondo, e anche gli americani si accorsero di noi. Durante una fiera, ci venne a trovare Greg Mackie, che all’epoca era capo di un gruppo che fatturava oltre 150 milioni di dollari, con un’industria di oltre mille dipendenti, che ci chiese di vendergli RCF. La RCF a stelle e a strisce non ebbe i successi sperati, le loro strategie nel vecchio continente non funzionarono, così dopo cinque anni ci proposero di riprendercela, così con altri due soci finalizzammo l’operazione, alle nostre condizioni, e iniziò la storia moderna del marchio RCF.

Si tratta di un percorso lungo e tortuoso, ma pieno di soddisfazioni. In conclusione, quali sentimenti prova a guardarsi indietro, e quali obiettivi si pone a guardare avanti?

Sicuramente è stato un percorso con delle soddisfazioni e dei risultati tangibili, soprattutto per quanto riguarda il percorso imprenditoriale dei marchi AEB ed RCF. Ma la soddisfazione più intima è stata quella di aver fatto conoscere l’Emilia nel mondo, non solo come una terra di motori, ma anche come una terra di suoni. Quando ci presentiamo nei mercati mondiali ci apprezzano e ci rispettano. Per quanto riguarda i miei programmi futuri, invece, manca solo l’ultimo pezzo del puzzle, per completare il disegno iniziale: voglio entrare con solidità nel mercato asiatico, mercato che ancora ci manca. Una volta che avrò portato a termine questa sfida, e visto che sono ancora giovane con i miei 82 anni, mi potrò considerare sazio e forse mi riposerò. 

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