Pino "Pinaxa" Pischetola

Abbiamo fatto una piacevole chiacchierata con Pino Pischetola sul lavoro del sound engineer.

di Giancarlo Messina


Da un paio di decenni dietro la console, ha realizzato moltissimi dischi che hanno fatto la storia della musica leggera italiana e non solo. Abbiamo fatto una piacevole chiacchierata con Pino Pischetola per farci raccontare meglio il suo percorso professionale ed il suo punto di vista su alcuni aspetti che riguardano il lavoro del sound engineer.
Pino, classe ’64, ha sempre avuto la passione per la musica e per gli strumenti, elemento comune, e direi indispensabile, a tutti quelli che fanno questo mestiere. In più, essendo un appassionato di tecnologia, ha sempre seguito con interesse il mondo dei computer e dell’informatica. Già con un diploma di perito elettronico, dopo il servizio militare, il suo sguardo cade su un depliant che pubblicizzava un corso di tecnico del suono promosso dalla Regione Lombardia nella sua Milano.


Era il legame perfetto fra musica ed elettronica?
Sì, avevo già bazzicato in qualche piccolo studio di registrazione, ma lavoravo alla “Siemens Data” dove riparavo i mainframe, cioè i computer delle banche; per fortuna questo corso della EMIT era serale, così ebbi modo di seguirlo per intero, per ben due anni.


Per due anni? Una cosa seria!
Sì, molto seria. Quando i miei amici andavano al bar, io andavo alla EMIT a studiare, quindi ho passato due anni abbastanza duri. All’insaputa della Siemens, ovviamente. Poi, per una serie di combinazioni, mi sono trovato, proprio quando ho finito il corso, a casa di un mio amico musicista dove c’era una persona amica dei fratelli La Bionda, proprietari degli studi Logic. Così fui presentato a Michelangelo: coincidenza volle che proprio in quel periodo Marco Guarnerio, allora fonico residente, poi diventato produttore degli 883 e di tante altre cose, aveva lasciato il lavoro, così mi proposero di prendere in mano la situazione tecnica dello studio. 


Il Logic era uno studio importantissimo, di livello mondiale. Professionalmente ti sei formato lì?
Sì, lo studio era molto bello, avevano una console SSL fantastica. Lì, come tutti, ho iniziato come assistente, facendo i caffé e seguendo i fonici che venivano a lavorare. Poi, per una serie di combinazioni fortunate, mi sono trovato pian piano a fare da assistente a dei professionisti molto bravi, anche stranieri, per cui ho avuto la possibilità di vedere delle cose forse mai viste prima in Italia, o comunque conosciute da pochi.


Parliamo degli anni ’80?
Parliamo della fine degli anni ’80, quando ho anche cominciato a fare i primi lavoretti. Una svolta importante arrivò con le registrazioni dell’album Violator dei Depeche Mode i quali, per una serie di combinazioni, avevano addirittura chiesto me come fonico! Avevo infatti lavorato con Alan Molder, facendogli da assistente, che aveva parlato di me a Flood, il loro produttore. Così questo è stato il mio primo grosso lavoro.
Inoltre, sempre al Logic, nello stesso periodo, è iniziata la collaborazione con Robert Palmer che si era trasferito in Svizzera e cercava uno studio con la Solid State. Diciamo quindi che la mia formazione è stata fatta proprio lì.


Il Logic era all’avanguardia anche sotto il profilo tecnologico!
Assolutamente: i fratelli La Bionda erano veramente attenti ed appassionati alle nuove tecnologie, lavoravamo molto per cercare sempre di migliorare tecnicamente lo studio, di farlo restare il numero uno. Grazie a questo ho avuto la possibilità di ampliare le mie conoscenze: nei primissimi anni ’90 usavamo già sistemi su hard disk ed il Sony 48 piste digitale... qualsiasi macchina innovativa era sempre ben accetta: dalla AMS Audiophile fino al costosissimo Synclavier per la post-produzione.

pinaxaDopo il Logic?
Finita l’esperienza al Logic, ho passato un paio d’anni come freelancer, ed in seguito, insieme ad altre persone, fra cui Mauro Spina, produttore e batterista, ho creato un altro studio che si chiamava Stonehenge. Ho lavorato in questa realtà per circa cinque o sei anni, apportando parecchie innovazioni. È stato forse il primo studio commerciale italiano basato sugli ADAT, cosa che ci ha permesso subito di poter investire su un sistema Otari Radar a 48 canali, quindi hard disk recording multitraccia in un’epoca in cui Pro Tools gestiva solo 16 tracce. Definisco quella esperienza un primo esempio di studio “low budget”, rispetto agli studi con le classiche e costosissime Neve o SSL, che quindi permetteva molta flessibilità ed un’atmosfera molto accogliente. Lì ho realizzato moltissimi dischi, anche importanti, tra cui i miei primi album con Celentano, con Carmen Consoli, Baglioni, Bennato, gli album Gommalacca e Fleurs di Battiato e parecchi altri.
Quando io ti ho conosciuto lavoravi altrove... a Industria...


Sì, grazie al fotografo Fabrizio Ferri, era nata in via Forcella questa nuova realtà, Industria Musica, vicino al Superstudio. Lì abbiamo realizzato, quasi sette anni fa, quella che ai tempi sembrava una cosa assurda e che oggi è diventata la normalità, cioè uno studio basato su Pro Tools ma con outboard analogico ed un sommatore. Ho lavorato lì cinque o sei anni, realizzando tantissimi dischi, da Baglioni a Robert Palmer, da Battiato al Jovanotti di Buon Sangue.


Qual era nel dettaglio la parte più innovativa?

Innovativo era il fatto di eliminare il mixer analogico, usato solo come sommatore, però senza manopole, e di integrare tutte le outboard analogiche dentro Pro Tools, come se fossero dei plug-in. Soprattutto era pazzesco il fatto di avere il mixaggio completamente richiamabile: allora tante console vantavano il cosiddetto “total recall”, ma poi, in realtà, per la quantità di tempo che ci voleva e la scarsa accuratezza del sistema, il mix non ritornava mai uguale, con non pochi problemi. Invece, col nostro metodo, un artista poteva permettersi di fare il CD ed ascoltare i brani, per poi cambiare quello che voleva in pochissimo tempo. È stata questa la più grossa innovazione. Devo dirti che sei anni fa, quando abbiamo aperto, era veramente un UFO, mentre adesso, se guardi le foto, sembra quasi vintage!


Esaurita questa esperienza?
Per un po’ ho lavorato come freelancer, basandomi soprattutto sullo studio di Eros Ramazzotti, all’Isola, un ambiente veramente positivo, con una regia molto bella: tra l’altro avevano già anche l’Icon della Digidesign ed una marea di outboard. Qui ho lavorato, fino all’anno scorso, ai mixaggi del Best di Eros, ai mixaggi dell’ultimo disco di Celentano ed a Safari di Jovanotti.

Finiti questi tre dischi, Pino aveva già in costruzione il suo nuovo studio che Sound&Lite ha presentato nei dettagli ai suoi lettori sul numero 73.
Aneddoto: mentre chiacchieriamo squilla il suo cellulare; nel silenzio dello studio in cui ci troviamo, sembra che Pino parli col vivavoce. All’altro capo del telefono deve esserci qualcuno che imita Celentano: “Ue Pino... ma tu ci vieni?”... poi capiamo che non è un’imitazione, ma l’originale! Il Molleggiato è infatti uno fra i più affezionati “clienti” di Pinaxa, come d’altra parte Franco Battiato, la Nannini o Jovanotti...


Pino, come si fa a “fidelizzare” il cliente? Sicuramente sei bravo, però di bravi ce ne sono anche altri in giro. Qual è il trucco?
Trucchi non ce ne sono. Una cosa di cui mi sono reso conto facendo questo lavoro è che alla fine, come in tutte le cose, l’esperienza è la cosa che ti aiuta di più; quindi, facendo questo lavoro ormai da vent’anni, ne ho viste di tutti i colori e tutto quello che si può immaginare possa succedere in uno studio io l’ho vissuto! Questo si traduce in sicurezza per l’artista, il quale ha la certezza di lavorare sempre a certi livelli e di relazionarsi con qualcuno che sa bene come ci si deve comportare in studio. Tu puoi essere il fonico più bravo del mondo, ma se mandi in crisi un artista durante un mixaggio...
Da un certo livello in su il fatto che uno sia bravo è una cosa scontata, ma occorre avere quel qualcosa in più che fa sì che tutta la lavorazione in studio diventi piacevole e soprattutto senza intoppi, dall’inizio alla fine. Tu puoi avere un disco che suona benissimo, ma se per arrivare a questo l’artista ha dovuto passare dei brutti momenti, ricorderà quel lavoro come una brutta esperienza.


Cosa significa “mettere a disagio un artista durante un mixaggio”?
A volte non si riesce a trovare l’equilibrio di un brano, di solito perché ci sono delle cose fatte prima che non funzionano. In questi casi occorre essere pazienti e costruttivi, perché si potrebbe essere tentati di dire “No, guarda, questo mix non verrà mai perché il pezzo fa schifo, o la stesura è sbagliata”. Io invece cerco sempre, insieme a chi è con me, di fare il meglio per raggiungere in ogni caso un risultato soddisfacente. Se una cosa è registrata male, raramente mi lamento, non sono di quelli che dicono: “Ma cos’è questa roba?” Cerco sempre di tirarla fuori nel miglior modo possibile. In questo senso dico che l’umore e l’atteggiamento di una persona possono cambiare completamente la direzione di un lavoro o un rapporto umano.

pinaxaQuindi essere sempre costruttivi...
Sì. E critici, anche, ma sempre se serve per raggiungere un risultato. Un atteggiamento sbagliato è anche quello di non dire veramente quello che si pensa e di dire che va sempre tutto bene, che è tutto bello, anche quando non lo è. Questo è l’opposto di quello che ho detto prima, ma è altrettanto dannoso. Poi gli artisti se ne accorgono e non gli fa certo piacere.

Quanto è importante conoscere l’artista con cui lavori?
Moltissimo, occorre conoscerlo e cercare di entrare nella sua psicologia per capire quali sono i suoi gusti ed adattare il tuo modo di lavorare. Per esempio quando lavoro con Celentano so come gli piace sentire le cose, ed è una maniera diversa rispetto, ad esempio, a Battiato; quindi non posso usare gli stessi riverberi o anche lo stesso modo di operare o gli stessi suoni. Devo veramente cercare di entrare nella mentalità dell’artista, capire il progetto, l’obiettivo e di conseguenza adattare anche il mio modo di lavorare. Tutto questo fa sì che un artista si trovi bene con te e ti chiami anche per il disco successivo.

Invece i rapporti con il produttore artistico?
Ecco, quando parlavo di artista intendevo anche il produttore artistico. Una cosa che ho imparato fin dall’inizio è quella di cercare di capire veramente i ruoli e le dinamiche che ci sono tra produttore, artista e fonico, cercare di non scavalcare il produttore per farsi bello con l’artista o viceversa. E a volte non è facile.

Qual è professionalmente il tuo sogno nel cassetto?
Non saprei: questo mio nuovo studio è certamente un sogno realizzato. Forse mi piacerebbe avere più tempo a disposizione per sperimentare un po’ di più con le macchine, perché, nonostante i venti anni di carriera, dietro c’è ancora una grande passione.