Matteo Garofalo - Direttore tecnico
Il musical Cabaret torna in italia con Diana del Bufalo e Arturo Brachetti.
Cabaret, un capolavoro del teatro musicale, è nato nel 1966 da un romanzo autobiografico di Christopher Isherwood, e ha conquistato il pubblico di Broadway e del mondo intero. Siamo andati a vedere la versione italiana firmata da Arturo Brachetti e Luciano Cannito.
Matteo, ci eravamo già incontrati in occasione del musical Priscilla. Anche in questo allestimento il sistema di lavoro è quello del teatro classico, tranne forse le tecnologie luci.
Sì, potevamo usare della tecnologia per proiettare le scene dei vari ambienti in cui si svolge la storia, e invece abbiamo voluto utilizzare le tecnologie classiche che il teatro ha preservato nell’arco dei secoli. In particolare, per raffigurare le varie ambientazioni abbiamo utilizzato dei periatti, ovvero delle costruzioni scenografiche che a seconda di come si girano compongono la scenografia.
È una tecnologia che deriva dal teatro greco, poi mano mano raffinata. Il periatto consiste in una struttura girevole con varie facce, che possono essere girate e combinate tra loro. Nel nostro caso le scene sono ambientate in un night club, in una stanza d’albergo, nello scompartimento di un treno e nella bottega di un fruttivendolo. Per cambiare scena, basta fare qualche secondo di buio, in modo che i macchinisti abbiano il tempo di girare il periatto e formare la nuova scenografia. Naturalmente si poteva fare con la tecnologia, ma il tutto avrebbe avuto un sapore diverso.
Come diceva Gigi Proietti, “viva il teatro, dove tutto è finto ma niente è falso”. Ti ritieni un boomer del teatro?
Accetto la denominazione, ma non so se nel mio caso sia da ritenersi un dispregiativo o un complimento. Sicuramente le nuove leve sono padrone di molta più tecnologia di quella in mio possesso, ma io amo la vecchia scuola, anche dopo la centesima data mi piace soffermarmi sul puntamento di quel sagomatore o la piega di quella tenda, perché tutto deve essere perfetto. Credimi quando ti dico che tutta la compagnia la pensa così, alla fine dello spettacolo sei molto stanco, ma anche molto orgoglioso del lavoro che hai fatto.
È la prima volta che lavori con Brachetti?
Era da diverso tempo che ci rincorrevamo senza trovare l’occasione giusta. Poi grazie a Fabrizio Di Fiore siamo riusciti a lavorare assieme. La FdF ha rilevato a Torino il teatro Alfieri, da 1500 posti, il Teatro Gioiello, da 500 posti. A Roma ha fondato City Musical, con la quale ha prodotto la nuova versione italiana di Sette spose per sette fratelli, e con la Roma City Ballet Company ha prodotto tre grandi titoli del balletto. Inoltre è proprietaria di Art Village, hub culturale a Roma tra i più grandi d’Europa, con 4.000 m² di superficie, 16 sale prova, un auditorium, sale di registrazione, appartamenti e campus per artisti e studenti fuori sede. Insieme a Stage di Milano e al Brancaccio di Roma, sono le uniche grosse realtà che investono in maniere pesante nelle produzioni teatrali.
Come ti sembrano i giovani lavoratori per il teatro?
Io sono moderatamente ottimista, e da una parte vedo le nuove leve molto preparate sotto il profilo tecnologico, sono tutti giovani che parlano più di una lingua e sono tutti nativi digitali, e quindi prevedo un futuro molto tecnologico. Però vedo anche un’assenza quasi totale di macchinisti, cioè quelli che lavorano con chiodi, martello e funi, che sono ancora le basi del teatro. Dopo tanti anni si è presentato un ragazzo giovane in questa compagnia con la volontà di fare il macchinista, ed è anche un ragazzo molto volenteroso e assetato di cultura teatrale classica, e noi lo teniamo come se fosse una reliquia. Poco tempo fa, un mio amico con la cattedra di scenografia presso un’università, mi chiede di poter portare i suoi ragazzi a teatro a vedere come si lavora dal vivo: quando ho visto i nomi dei ragazzi, ho scoperto che ventotto ragazzi su trenta erano cinesi, che venivano a studiare in Italia dalla Cina per imparare la nostra cultura e le tecniche di scenografia teatrale.