DPoT Studio
Uno sguardo al nuovo studio gestito da Fabrizio Simoncioni.
di Giancarlo Messina
“Simoncia” è un amico di vecchia data di Sound&Lite; per noi ha anche scritto alcuni articoli molto interessanti, due riguardanti la sua esperienza Texana ai Sonic Ranch Studios, l’altra la registrazione a Novo Mesto (Slovenia) dell’omonimo album di Niccolò Fabi, oltre a redigere una rubrica riguardante la sua personale tecnica di mix, pubblicata a puntate durate un intero anno.
Personaggio eclettico, musicista, cantante, produttore e sound engineer, Fabrizio ha molto da raccontare lungo una carriera che lo ha visto al fianco di grandi artisti italiani, dai primi Litfiba (di cui oggi è il tastierista) a Ligabue, fino ai parecchi anni di esperienza appunto in Stati Uniti e Messico, dove si è specializzato nel sound del pop latino, in maniera così nota che ancora oggi, tornato in Italia, buona parte del suo lavoro proviene proprio dall’America. D’altra parte la sua carriera di fonico è quanto mai interessante: da dischi che hanno fatto la storia del rock italiano, come El Diablo, MissMondo o Il mio nome è mai più, giusto per sintetizzare, fino ai successi latini che gli sono valsi tre nomination per “Best Album of the Year” e due nomination per “Best Record of the Year” ai Latin Grammy. In qualità di sound engineer può vantare, fino ad oggi, 57 dischi di platino e oltre 100 dischi d’oro… cosa non proprio da tutti.
Lo avevamo lasciato qualche anno fa, tornato dal Messico, al lavoro in uno studio di Arezzo, ma sapevamo che si era spostato a lavorare a Prato. Così, appena abbiamo potuto, siamo andati a trovarlo per dare un’occhiata al nuovo studio, fare due chiacchiere e, soprattutto, … per divorarci una fiorentina a dir poco commovente al “Cantiere”, ristorante a cinque minuti dal DPoT.
Lo studio si trova nella zona industriale di Prato, ed è ricavato all’interno di un capannone industriale. Ci accoglie un Simoncia in gran forma e, dopo aver fatto l’aggiornamento sulle recenti vicissitudini delle nostre vite, cominciamo a parlare del DPoT, partendo proprio dalle ragioni del nome:
“Lavorando molto all’estero – ci spiega – avevo bisogno di un nome internazionale, facile da comprendere; infatti lo studio precedente si chiamava ‘The Garage’, nome internazionale che si scrive e si pronuncia così in tutto il mondo. Ho quindi pensato a Dpot, che è la pronuncia di ‘dipot’ in inglese, ‘deposito’, anche perché in America esiste la catena ‘Home Depot’ conosciuta da tutti. Insomma un nome che funziona bene all’estero”.
Quindi continua il tuo lavoro con clienti d’oltreoceano…
Sì, certamente, la mia clientela standard è proprio quella: nel 2012 ho mixato in Messico un album il cui singolo è stato il più passato dalle radio di tutta l’America Latina, album per il quale ho ottenuto una candidatura ai XIII Latin Grammy, e questo mi ha portato molta visibilità; là c’è la cultura, corretta, per cui se piace il suono di un disco ci si rivolge al fonico che lo ha fatto. Così anche adesso molti artisti e produttori mi vogliono a mixare i loro lavori: in buona parte mi arrivano sessioni pronte di Pro Tools, da mixare, oppure stem audio. Io eseguo il mixdown, e rimando indietro il lavoro: tutti i miei clienti ricevono un mix, e uno solo, perché mi rifiuto di fare tre o quattro versioni; io mixo… il mastering engineer deve correggere, se ci sono, dei miei errori, ma non deve mixare, deve rispettare il mix. Se il livello della voce che ho deciso, ad esempio, è stato approvato dal produttore, non c’è motivo di rimetterci le mani o si sbilancia l’intero mixaggio. Così come chi mixa non dovrebbe stravolgere le sonorità delle registrazioni delle batterie (sempre ad esempio), perché vuol dire che il produttore voleva quel suono.
Quando ti sei trasferito a lavorare qui?
Lo studio è stato inaugurato nei primi mesi del 2016, anche se la struttura esisteva già da due anni. Mi hanno inizialmente chiamato per avere una consulenza sulle macchine da acquistare, poi sono rimasto a curare l’intera struttura. Ho trovato già un ottimo lavoro, perché l’acustica non era stata fatta a caso, ma curata da Donato Masci di Studio Sound Service di Firenze, una realtà di ottimo livello. Io ho poi presentato la mia lista dei desideri, e devo dire che sono stato in buona parte accontentato, anche perché senza alcune macchine non riuscirei proprio a ottenere il mio sound: lavoro alla vecchia e i miei “plug-in” sono di ferro. Così lo studio si è riempito di alcune macchine non solo belle da sentire ma anche da vedere, come l’AMS DMX 15-80 S per le voci. Tra le outboard ho molte macchine per la dinamica, perché amo usare molto compressori e limiter, anche se sempre in compressione parallela per lasciare respiro al suono. Il Chandler TG1 EMI è poi un must sulle batterie, come il Tape Emulator di Rupert Neve… insomma macchine di grande personalità sonora, anche se non proprio di fascia economica.
Insomma l’amore per il digitale non è scattato…
Con tutto l’amore e la mente aperta verso il digitale con i plug-in proprio non ce la faccio, perché il suono che hanno le mie macchine non è davvero paragonabile, e non sono il solo a dirlo: hanno pubblicato delle prove di ascolto comparate che tagliano la testa al toro a favore dei “ferri esterni”.
Al centro dello studio troviamo, acquistata in Olanda in condizioni ottime, una bellissima SSL SL4064 G con i suoi 64 canali, customizzati su richieste specifiche di Fabrizio, a cominciare dalla presenza dei VU meter invece dei peak meter, dettaglio importante per la gestione della dinamica:
“Avere i VU meter è fondamentale – spiega Fabrizio – perché permettono di visualizzare e gestire al meglio il livello medio dell’energia: un suono con un transiente veloce non fa quasi muovere il peak meter, e questo porta a spingere fino al limite dell’over; ma se si suona un basso elettrico, ad esempio, il picco quasi non esiste, quindi se si fa il livello facendo riferimento solo ai peak meter, magari su Pro Tools, si ottiene un risultato imbarazzante, altissimo, che non ha senso non solo per il volume, ma proprio anche il suono viene sbagliato, e questo mi capita spesso aprendo sessioni di solito registrate da chi non ha avuto esperienza con VU meter e registratori analogici”.
Ma certo questa non è l’unica customizzazione della sua SSL: “Per cominciare ho richiesto un frame della serie G+, cablato oxygen free (antiossidante), e ho fatto migliorare l’alimentazione, ampliando la quantità di corrente disponibile per la console, per dare più dinamica ed un miglior rapporto segnale-rumore. La cosa più libidinosa è stata la possibilità di customizzare i moduli; infatti i primi 16 canali sono sempre canali della serie G, ma con scheda ed equalizzazione della serie E Black, la migliore per l’EQ di batterie e bassi. Ho poi 32 canali della Serie G Black e otto canali stereo della vecchia serie E Brown, estremamente musicali, che infatti uso di solito per i ritorni effetto, riverberi o elementi stereo. Il modulo centrale è migliorato ulteriormente in dinamica e segnale-rumore, interamente ricappato, come tutta la console. Infine ho fatto predisporre un’interfaccia bidirezionale per poter controllare il trascinamento verso e da Pro Tools direttamente dalla console: posso così lavorare alla vecchia, come se avessi ancora il nastro. Infatti io mixo ancora con l’automazione della SSL, che è molto più musicale, perché fatta a mano”.
Ma questo non comporta tempi di recall troppo lunghi? Come organizzi il lavoro?
Imposto manualmente il mio mix, e quando sono all’80% del lavoro comincio a stemmare a sezioni, per avere degli stem digitali ma con il mio suono. Grazie a questo riesco velocemente a riprendere un mix e correggerlo: se è solo una questione di balance fra gli stem non devo nemmeno riaprire la console, se invece c’è da correggere il mix di uno stem, ad esempio un rullante troppo alto, richiamo in console solo i canali di uno stem, che al massimo sono i 16 canali di batteria, lavoro che mi porta via solo cinque minuti.
Quali ascolti hai scelto?
Ho trovato già qui le Genelec 1025A, casse che io avevo usato allo studio Al Capone tanti anni fa, e che addirittura potrebbero anche essere fisicamente le stesse con le quali ho mixato El Diablo dei Litfiba. Non hanno sub, perché non serve, visti i due coni da 15” in cartone che danno delle legnate già pazzesche. Per migliorarle ulteriormente ho scelto di adottare la soluzione che ho imparato lavorando a El Paso, e cioè di installarle affogate in un bagno di cemento, cosa che le rende molto ferme e con una risposta sulle basse perfetta; questo, insieme all’ottima acustica di Masci, le rende potenti ma anche molto affidabili. Come nearfield ho poi il top del sistema Genelec, le 8351A, complete di subwoofer: sono molto belle, autocalibranti, in alluminio aeronautico. Infine come mini monitor ho una rara coppia di Pelonis 42 con il subwoofer Pelonis LN: hanno forma romboidale e montano un componente coassiale a due vie Tannoy. Amplificatore e processori sono controllabili tramite USB: stranamente non hanno crossover, ma suonano comunque benissimo; sono insomma una valida alternativa alle Yamaha NS10, assolutamente affidabili nei bilanciamenti ma con una estensione di frequenze estremamente superiore.
Oltre alla regia principale, lo studio ha a disposizione una Regia B, dotata di una console digitale Slate RAVEN MTi2 con touchscreen 27”, che all’occasione può essere anche usata come sala di ripresa, essendo del tutto cablata con la regia principale. Ma l’ambiente più importante a tal fine è la sala di ripresa principale, piuttosto grande, anche se non grandissima: “Questa sala è spaziosa – spiega Fabrizio – e pur non avendo una immensa superficie in metri quadri, ha una grande cubatura, perché è sviluppata verso l’alto. Inizialmente mi sembrava troppo flat, da musica classica, poco adatta al rock, tanto che avevo pensato di fare dei cambiamenti all’acustica; in realtà, suonandoci molto dentro, o per il tempo o perché il materiale acustico si è assestato, l’acustica è cambiata parecchio, diventando molto personale, più profonda; oggi sono davvero contento dei risultati che riesco ad ottenere, ad esempio sulle batterie”.
Lo studio ha poi un ampio lounge al piano superiore, anche questo cablato, così da poter essere utilizzato per registrare all’occasione una band in maniera separata.
Il set dei microfoni a disposizione è quello che Simoncia ritiene il suo standard: Sennheiser MD421, AKG C 414, molti Shure SM57 e Beta 57a, un Microtech Gefell UM 92.1 S valvolare e due Microtech Gefell MH 93.1; poi ovviamente Neumann – due KM 184 e un U 87 Ai – ma anche due Royer, un R-122 e un R-121… con l’opzione di noleggiare altri microfoni in caso di richieste particolari: “Adoro i microfoni del mio amico Silvano Ribera – aggiunge Fabrizio – usati da Bocelli e Céline Dion, ma al momento sono… fuori budget!”.
Oltre ai tuoi clienti americani, quali lavori hai svolto nel nostro mercato?
Da quando DPoT è aperto sono già stati fatti diversi lavori, come ad esempio l’intero disco Eutòpia dei Litfiba, L’abisso dei Diaframma, gli ultimi singoli di Edoardo Bennato, Supereroi de Il pan del diavolo, il mix di un musical messicano molto impegnativo, Capricho, poi il nuovo lavoro di Ghigo Renzulli, un disco strumentale dedicato alle colonne sonore, alcune famose arrangiate da lui, altre composte da lui ispirandosi ad alcuni film.
Nella catena della produzione di un disco, chi è oggi a richiedere e pretendere un lavoro di qualità?
A richiedere la qualità di un vero studio professionale non sono certo i discografici, semmai gli artisti; da un po’ c’è la voglia di tornare al bel suono, anche in artisti giovani. Poi magari non c’è il budget, perché la qualità costa, anche se ormai tutti noi ci adeguiamo al mercato: arriviamo a scendere a cifre una volta nemmeno immaginabili, anche 400 € al giorno, compreso il mio lavoro sia come fonico e spesso anche come arrangiatore! Perché la fregatura è sempre quella: io lavoro con la passione del primo giorno, l’entusiasmo per la musica viene prima del profitto.
Anche per questo ho aperto una mia etichetta discografica e sto cercando di trovare una distribuzione fisica delle mie produzioni. Ho amore per questo lavoro e per la musica, mi piace lavorare insieme ad artisti che hanno idee interessanti per produrre i loro lavori quando lo studio è fermo. Il mio obiettivo è quello di dare un volto, una connotazione precisa al marchio DPoT che deve coincidere non con il genere musicale ma con la qualità della produzione. Mi piacerebbe che la gente identificasse una produzione DPoT Records come sicuramente un lavoro di qualità.
Ma intanto DPoT sta diventando sempre più anche un polo musicale di aggregazione per i musicisti della zona. Confina infatti con una sala prove, gestita dall’assistente di Simoncia, Matteo Nicolai, e questo aiuta certo a far respirare musica e passione in questa zona industriale pratese: “Mi piacerebbe anche iniziare un progetto di didattica fonica – conclude Simoncia – con un approccio molto diretto, impostato sulla pratica più che sulla teoria; c’è un grande interesse nei giovani verso il mondo dello studio recording di qualità”.
La nostra chiacchierata si conclude ascoltando qualche brano di una nuova interessante produzione di Fabrizio e soprattutto l’ottima acustica della sala regia. Ma dopo tante chiacchiere, è tempo di non far aspettare oltre la fiorentina promessa…